Don Francesco Bonifacio. Primo prete infoibato a diventare Beato

Posted on September 14, 2016


«Non era come altri prelevati, che supplicavano pietà e rinnegavano il loro passato, ma era di carattere forte e deciso, e non temeva che il suo comportamento in quel momento gli potesse causare la morte. Questo prete non ha smesso di essere prete fino alla morte». Il ritratto più limpido di don Francesco Bonifacio, prete martire, ucciso l’11 settembre di 70 anni fain odium fideinel cuore dell’Istria, lo ha tracciato proprio uno dei suoi assassini, intervistato nel 1971 da un regista italiano andato in Jugoslavia per produrre un’opera teatrale sulla drammatica vicenda. Alla beatificazione del sacerdote, avvenuta nel 2008, più delle tante testimonianze dei suoi parrocchiani hanno contribuito le parole delle guardie popolari del maresciallo Tito, le stesse che quel giorno del 1946 gli avevano teso un agguato a Grisignana, sulla strada che collega Pola e Trieste, e lo avevano costretto a salire in macchina per arrestarlo: «Ma in auto il prete era testardo, continuava a dire preghiere quando gli si intimava di tacere», hanno raccontato, e le loro parole sono riportate nella Positio,il testo che contiene gli elementi favorevoli e contrari in un processo di beatificazione. Una fede e un coraggio insopportabili per i suoi carcerieri, che fermano l’auto e lo pestano a sangue. «Ma il prete a terra mormora preghiere con il viso tra le mani», anche quando gli ordinano di «smetterla di dire stupidaggini» minacciando di colpirlo in testa con una pietra. «Ecco la mia fronte», raccontano che abbia detto, «togliendosi le mani dal viso»… Morirà in ginocchio, finito con due coltellate alla gola. Ciò che ha fatto stizzire i suoi aguzzini, riferiscono loro stessi, è stato quel perdono che offriva loro mentre infierivano su di lui…

Dobbiamo a Mario Ravalico e al suo libro Don Francesco Bonifacio, assistente dell’Azione cattolica fino al martirio (Ave, pp. 220, euro 20) sela storia del beato istriano riemerge oggi da un lungo silenzio, rotto dalla beatificazione avvenuta otto anni fa, ma ancor più dalla passione del suo biografo, che ha ritrovato tanti anziani (i giovani di allora) e ha permesso loro di raccontare ciò che un tempo si taceva per terrore. «Un giorno a Buie venni a sapere da uno della polizia politica che avevano preparato una lista di persone da far sparire», gli rivela Andreino Antonini, «e tra questi anche tre preti,don Colomban, don Bonifacio e don Rocco…». Il ragazzo corse nel buio in bicicletta ad avvisare il primo, che così si salvò, ma non poté fare di più. «Anch’io giorni dopo dovetti fuggire dall’Istria per riparare a Trieste: avevano scoperto la mia attività di aiuto alla Chiesa e la mia appartenenza all’Azione Cattolica, che aveva l’aggettivo ‘italiana’…».

Eppure il racconto di tutti i testimoni, italiani e no, concorda sull’amore incondizionato che il giovane sacerdote riservava a chiunque senza distinzione, «titini, partigiani, fascisti e tedeschi ». Mansueto Bianchi, assistente generale dell’Azione Cattolica, nella prefazione al libro traccia il contesto storico in cui don Bonifacio visse e morì, («l’Istria del periodo bellico e immediatamente successivo, con l’instaurarsi del regime comunista di Tito, tra odio politico ed etnico, in particolare contro i cattolici e gli italiani»), ma sottolinea come la cifra del sacerdote vada oltre, si collochi al di fuori dei conflitti ideologici e sia il simbolo di unaChiesa che va incontro alla persecuzione perché mai tradisce il mandato di Cristo di amare tutti. «L’attenzione missionaria era soprattutto verso gli ostili e i peccatori».

La sua vita di sacerdote durò solo un decennio, stroncata nel martirio quando don Francesco aveva solo 34 anni. Del corpo, gettato in una foiba, non si seppe più nulla. Profetica la sua ultima omelia nella chiesa di Crassiza dieci giorni prima di morire: «Connazionale o straniero, amico o nemico, questo è il tuo prossimo. Non c’è qualità di persone che possa essere esclusa dal nostro amore cristiano. Fate del bene anche a quelli che vi odiano: ecco l’elemosina spirituale, il perdono». E allora ha vinto lui, se oggi a Crassiza il vescovo di Parenzo Dražen Kutleša, domani a Trieste nella cattedrale di San Giusto l’arcivescovo Giampaolo Crepaldi, e lunedì a Pirano il vescovo di Capodistria Jurij Bizjak, tutti celebreranno questo apostolo della misericordia, oltre ogni frontiera.

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