In seguito all’occupazione dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, iniziata nel dopoguerra da parte dell’armata popolare del maresciallo Tito, oltre 350.000 italiani dovettero fuggire da quelle terre.
Decine di migliaia furono uccisi nelle foibe o nei campi di concentramento, mentre molti altri vennero accolti nella Patria italiana come nemici perché considerati fascisti.
Dopo circa sessant’anni di vergognoso silenzio, l’Italia ha riconosciuto la tragedia della nostra storia istituendo la Giornata del Ricordo perché, riportandola alla memoria, ogni anno, si potesse restituire dignità a coloro che sono scomparsi ed a tutte le persone che, con la morte nel cuore, pur sapendo che era l’unica scelta obbligata da fare, dovettero abbandonare quelle terre meravigliose e continuare a vivere sapendo di aver lasciato l’anima altrove.
E’ per questo che sono molto importanti le memorie e le testimonianze di chi ha vissuto quel sacrificio e ha provato l’amarezza del distacco dalla Terra natia. “O mia Patria si bella e perduta” sarà per sempre lo struggente e nostalgico sottofondo musicale del romanzo della nostra vita.
Qualche settimana fa ho ascoltato attraverso la voce di mio zio Gabriele il racconto della sua fuga in barca dall’incantevole isola di Lussino. Ogni tanto la sua voce veniva a mancare per la forte emozione che il ricordo di quell’evento gli procurava; nell’espressione del suo viso, negli occhi velati di lacrime, scorgevo ancora vivo il ricordo della paura della fuga e il dolore per aver abbandonato e, di conseguenza, perso tutto: la sua amata mamma Agata, il suo papà che neanche aveva potuto salutare e che non avrebbe mai più rivisto, i luoghi della sua infanzia, i compagni di scuola, il suo mare, i suoi pini, il dialetto della sua isola, il profumo del pesce appena pescato, il suo Paese. Nella vita ci siamo abituati a perdere qualcuno: un amico, chi si allontana, chi purtroppo muore. Ma perdere un paese, il paese dove siamo nati è veramente molto raro. A mio zio, in quel momento, era rimasta una sola cosa: la coscienza di essere italiano!
Erano partiti i ricchi ed erano partiti i poveri: il sacrificio era stato immenso e incommensurabile e lui decise di andare quando capì che non c’erano più speranze: se fosse rimasto avrebbe dovuto vivere nel terrore quotidiano perché Tito voleva cancellare la presenza del popolo italiano in quel territorio e anche la sua storia. Aveva solo 17 anni ed era l’ultimo di otto fratelli, e dopo aver stretto al cuore la sua mamma, con un sacco a rete sulle spalle, si incamminò verso il porticciolo di San Martino dove c’era la barca a remi e a vela di suo padre. Era l’ultimo sabato del mese di ottobre del 1948, un sabato di cielo sereno e smagliante che garantiva l’attraversata dell’Adriatico in modo abbastanza sicuro.
In quel periodo vigeva a Lussino una legge che obbligava tutti i proprietari di barche a dichiarare il luogo dove andavano. Mio zio attuò, assieme ad altre 9 persone che fuggirono assieme a lui, l’espediente della finta compravendita della barca che avrebbe dato loro la possibilità di muoversi
per consegnarla al nuovo acquirente senza essere controllati. Tutte le vedette dell’isola erano armate fino ai denti e senza tanti scrupoli erano pronte a sparare. Il dragamine Italia che perlustrava le acque attorno all’isola, di sabato e di domenica era fermo (condizione ideale).
Così salparono, mio zio ed altri 2 amici, da San Martino verso San Pietro dei Nembi, costeggiarono l’isola fino a Cigale e all’imbrunire, quando non potevano più essere visti dalle vedette, si diressero verso l’isola di Sansego; lì, in una piccola baia nascosta, imbarcarono le altre 7 persone e via verso l’Italia!
La sete, ben presto, si fece sentire terribile: erano senza acqua da bere, nessuno l’aveva portata. Mio zio si bagnò la bocca con il mare accentuando ancora di più la sofferenza che già provava!
Remarono a turno, incessantemente, per raggiungere la Madre Patria che li stava aspettando. Potevano ancora sperare di vivere da uomini liberi, continuare a parlare la loro lingua (quella italiana), praticare la loro fede in Gesù Cristo ed esprimere liberamente le loro opinioni politiche e religiose senza censura o punizione di altro tipo.
Il forte vento di scirocco li fece arrivare più a nord del previsto, sopra Ancona, a Senigallia e subito le persone maggiorenni furono prese dalla polizia e portate in prigione e mio zio, invece, assieme ad altri due ragazzi minorenni, nei centri di rieducazione. Il giorno dopo furono portati in una località del Lazio in una specie di campo di concentramento per effettuare tutti gli accertamenti sulla loro provenienza. L’ultimo a essere rilasciato fu mio zio. Da lì si diresse verso Venezia per continuare gli studi presso l’Istituto Nautico.
Rivide la sua isola dopo 10 lunghissimi anni tornando da uomo libero, dopo che si era diplomato, e diventato Comandante di lungo corso. E’ difficile trovare le parole giuste per raccontare cosa vuol dire ritornare nel proprio Paese: vuol dire non essere solo, vuol dire che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti …..
Posted on April 6, 2016