Questa è il racconto-testimonianza inedito della storia di una famiglia italiana fuggita dalle persecuzioni in Istria e giunta, dopo molte traversie, a Livorno. Shamira Franceschi, conosciuta come blogger Shamira Gatta, è la più giovane discendente e ha raccolto la storia della sua famiglia dalla voce dei nonni e della madre.
Mia mamma Duscka dice sempre che per mantenere vivo il ricordo bisogna parlarne, perché la storia dei nostri genitori, dei nostri nonni, è parte di noi, e per mantenerli vivi non dobbiamo smettere di ricordarla.
(La famiglia Bertolotto in una foto del 1907 – Dall’impero austroungarico ai titini)
In questi giorni cade la commemorazione delle vittime delle foibe, ed io voglio raccontare a voi la mia storia, la storia della mia famiglia.
Mia nonna, Etta Bertotto, era nata a Cherso, una bellissima isola nell’arcipelago del Quarnero, Istria, al tempo territorio italiano, ceduta poi, a seguito del trattato di pace del 10 febbraio 1947, alla Jugoslavia.
Nel settembre del 1943 approdarono, sulle rive di Cherso, gli jugoslavi di Tito, che mia nonna, quando raccontava, chiamava i “Titini”, occuparono il municipio e presero il potere, iniziarono le prime sparizioni, 14 uomini furono prelevati, senza preavviso alcuno, di notte, dalle loro case, vennero legati e fatti imbarcare con la forza, alcuni di loro furono fucilati senza nessuna accusa.
(Il ritrovamento di un cadavere in una foiba)
SENZA SCARPE NÉ VIVERI
I ragazzi in età militare furono deportati e costretti ad arruolarsi forzatamente nell’esercito di Tito, vennero mandati senza scarpe e senza viveri, molti di loro non fecero mai ritorno. Iniziarono le rappresaglie contro gli italiani, fu istituito il coprifuoco, c’era paura anche solo a parlare per le strade, le persone, senza distinzione di sesso o di età, venivano torturate e massacrate, e infine i corpi venivano fatti sparire, gettati nel mare dalle alte scogliere.
A Cherso si moriva di fame, gli uomini venivano arruolati, le donne lasciate sole con i bambini piccoli, coloro “giudicati” ostili alla causa “titina” presi e portati via di notte; sull’isola le risorse scarseggiavano..
Arriva poi l’obbligo per tutte le famiglie di fornire scorte alimentari per l’esercito in guerra, ovviamente non ci si poteva rifiutare.
C’era così tanta miseria che per Natale, un anno, ebbero la fortuna di trovare una noce, la trisnonna Maritza la divise tra nonna Etta e zio Giannino, il suo fratellino, e con le due metà del guscio, costruì una piccola barchetta, quello era il regalo di Natale per nonna e zio.
E poi vennero le foibe in tutto il territorio istriano e dalmata, e la deportazione nei campi di prigionia, orrore negato dalla storia per anni, così forte era il dolore nei racconti dei nostri nonni e dei nostri genitori, che sentirne parlare ci fa male al cuore. (Nella foto nonna Etta Bertotto)
LA “SOLUZIONE” DI TITO
Tito incaricò i suoi soldati di “risolvere il problema” di quelle persone che non approvavano l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia, dette il via così alla pulizia etnica, che per anni è stata negata, e che molti italiani, hanno scoperto essere vera solo di recente. Certo, c’è differenza tra sentirne parlare in televisione e sentirla raccontare dalla propria nonna, ancora spaventata, a distanza di anni, anche solo di parlare a voce alta per strada. «Non si poteva parlare per strada, non si poteva pensare, per strada. C’era paura anche a bisbigliare in casa, sottovoce».
«Cavità verticali naturali, pozzi della terra in cui venivano gettate le persone»: ecco cosa avete appreso dai telegiornali. «Venivano di notte, li sentivi bussare alle porte, speravi che non toccasse a te – mi raccontava mia nonna Etta – prendevano tutti, uomini, donne e bambini, indistintamente, e li portavano via, tutti sapevano, ma nessuno poteva parlare, si doveva cantar le loro canzoni, esporre le loro bandiere, fare i loro balli, a comando, altrimenti erano botte».
Quando nonna mi raccontava della miseria e della fame, non riuscivo a capire come l’uomo potesse essere così cattivo. Nonna scappava da scuola per non sottostare alle punizioni dei Titini, che non volevano che i bambini parlassero italiano, e con un filo ed un amo di fortuna, cercava di pescare qualche pesciolino. Quando sono andata a Cherso per la prima volta ero molto piccola, ma non dimenticherò mai che poche cose erano cambiate, anch’io correvo sul viale acciottolato con il mio cestino da pesca, e pensavo che quelle erano le strade dove si era consumata una grande tragedia, dove le persone morivano di fame o fucilate, o fatte sparire la notte. (Nella foto di gruppo: il primo uomo da destra è il bisnonno Checo, il bambino inginocchiato è lo zio Giannino, sulla sinistra la zia Maricci e la figlia)
Le foibe sono enormi voragini di origine naturale, profonde più di 200 metri, così profonde che a volte vederne il fondo è impossibile. Dal 1943 al 1947 vi sono stati gettati circa diecimila italiani, la maggior parte di loro erano ancora vivi, legati tra loro con una fune, sparavano al primo, che cadendo si portava dietro il resto della fila.
Molti di loro non morivano subito, molti rimanevano in vita sul fondo delle foibe, la caduta attutita da altri corpi, morivano di stenti o di embolia.
Nel 1945, dopo anni di terrore, le violenze aumentano, vengono uccisi tutti coloro che sono “nemici del popolo”, vale a dire italiani, cattolici, socialisti, preti, ma anche anziani e donne con i loro bambini.
(Nella foto la bisnonna Tona è la prima a sinistra nel gruppo di tre ragazze al campo profughi)
350MILA PERSONE IN FUGA
Nel febbraio 1947 Istria e Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia, trecentocinquantamila persone lasciano la loro terra, abbandonando tutto, case, averi, ricordi, affetti… Pur di rimanere italiani oltrepassano la nuova frontiera, dove nessuno sapeva quale orrore si stava consumando in terra istriana. Quando il treno stipato di profughi, sulla quale si trovava anche mia nonna, arriva a Bologna, gli esuli vengono ignorati. Vengono accusati: «Venite a portarci via il lavoro». Le persone stanche ed affamate, chiesero acqua da bere ma venne negata.
«Per non dimenticare», che sia ben chiaro, che gli eventi tragici debbano essere ricordati, perché i grandi errori degli uomini, devono essere raccontati alle nuove generazioni, affinché ricordino, affinché non dimentichino, affinché non si ripeta mai più…. Solo nel 2005 il Parlamento italiano decide di dedicare una giornata del ricordo in memoria delle vittime delle foibe.
(Nella foto nonno Checo mentre spacca la legna nel campo profughi a Migliarino)
Ancora oggi ci sono persone che negano la loro esistenza, e questo fa male a noi che siamo rimasti e ricordiamo il loro dolore… Mia nonna quando arrivò a Trieste aveva 13 anni: il 13 dicembre 1949, dopo due anni di tentativi per venir via da Cherso dettero il permesso a mia nonna Etta ed alla sua famiglia di venir via. Ma le partenze non erano mai semplici. Dissero alla mia bisnonna Tona: «Se volete andare in Italia andate, ma sua mamma quasi cieca, rimane qui». La mia bisnonna Tona lasciò la madre dai cugini, e partì, per salvare i figli.
Alla frontiera cambiarono i nomi e le date di nascita sui documenti. «Cambiavano i nomi sui documenti, cambiavano le date di nascita, ti toglievano l’identità, dopo che ti avevano già distrutto il cuore».
Quando mia nonna arrivò a Trieste, rivide il pane dopo tanto tempo, ne mangiò così tanto che per paura di non rivederlo, il giorno dopo le venne la febbre per l’indigestione, si portò perfino una pagnotta di pane sotto il cuscino.
(Nella foto un gruppo di profughi nel ’49 al campo di Migliarino: alle spalle si vede un dormitorio)
La mia bisnonna voleva rimanere a Trieste, dove già vivevano due suoi fratelli con le famiglie, ma non le dettero il permesso e la mandarono con la sorella e le rispettive famiglie, nel campo profughi di Migliarino Pisano, dove rimasero circa due anni. Il mio bisnonno Checo, per risollevare il morale, ogni sera suonava una fisarmonica, e tutte le persone del campo si radunavano per cantare e ballare insieme.
POI LA CASA A SHANGAI
Nel campo profughi non c’erano case, c’erano soltanto enormi capannoni, dove delle lenzuola appese con delle funi, dividevano l’intimità della notte delle famiglie. Da lì furono trasferiti alle ex colonie di Calambrone, la mia bisnonna Tona fu divisa dalla sorella Maricci, la quale, assieme alla famiglia, fu mandata a Pisa, alla mia bisnonna ed alla famiglia infine venne data loro una casa a Livorno.
La casa le fu assegnata nel quartiere di Shangai, in via Filippo Turati, quegli stabiloni gialli che si vedono ad oggi dall’Aurelia.
La casa era composta da un cucinotto, un bagno, un terrazzino, una cameretta ed una camera, ed a starci erano il mio bisnonno Checo, e la bisnonna Tona, i due figli, appunto nonna Etta e zio Giannino, e, quando riuscirono a far venire la mamma di Tona da Cherso, anche la trisnonna Maritza.
Anch’io ho abitato in quella casa, molti anni dopo.
Zia Mari era la cugina di mia nonna, abitava a Lussino, al tempo aveva due bambine piccole, i genitori di zia Mari erano riusciti, mesi prima a fuggire a Trieste.
Quando la mamma di zia Mari morì, mia zia dovette chiedere il permesso per andare al funerale. Ovviamente il permesso fu negato.
Dopo mesi e mesi, le dettero il permesso per andare con le figlie piccole a vedere la tomba della mamma. Le condizioni ovviamente erano due: «Parti oggi e tra due giorni sei di nuovo qui. Non potete portare valige, partite solo con quello che avete indosso, e tornate».
Zia Mari partì scortata dalle guardie, con le due bambine piccole, alla frontiera le controllarono i documenti e la perquisirono, nessuno doveva capire che volevano scappare, altrimenti chissà cosa sarebbe successo. Aveva nascosto i pochi soldi che le rimanevano dentro una bambolina che la figlia più piccola teneva stretta a sé.
(Nella foto Tona Bertotto all’interno della casa popolare a Shangai in via Turati)
Riuscì a raggiungere Trieste, ma quando a Lussino si accorsero che lei era scappata, chiamarono tutti in piazza, per far vedere cosa succedeva a ciò che lasciavi lì. Le entrarono in casa e iniziarono a buttar giù dalla finestra tutti i suoi averi, i mobili, le fotografie, i vestiti, e poi dettero fuoco a tutto: «Questa è la fine di ciò che lasciate se scappate, questa è la fine di chi abbandonate».
TERRORE ANCHE NEL ’76
Fino a pochi anni fa si avvertiva comunque una certa ostilità nei confronti degli italiani. Non vi parlo di un secolo fa, vi parlo del 1976, anno in cui mia mamma, con mia nonna, tornò alla sua Cherso, il turismo non c’era ancora, e le poche persone che cercavano di raggiungere i parenti rimasti, venivano guardate con sdegno, diffidenza e rabbia.
Superata la frontiera, approdati in terra slava, un soldato monta sul pullman, per controllare i documenti dei passeggeri. Mia mamma non dimenticherà mai quel momento, quando il soldato prese i documenti di mia nonna, e lesse che era nata a Cherso, iniziò ad urlarle contro, in slavo, e nonna iniziò a tremare, fu allora che mamma si rese conto quanta paura avesse avuto mia nonna, e quanto ancora il ricordo era vivo e la ferita fresca, ancora aperta. Nessuno nel pullman disse o fece niente, tutti chinarono la testa, e loro furono fatte scendere, perquisirono i bagagli, aprirono i pacchetti infiocchettati, piccoli regali per i parenti. La sua colpa? Essere italiana…
Mia nonna ha sempre amato la sua Cherso: quella terra che io ancora sento mia, quella terra che solo sentirne il nome mi vela il cuore di tristezza, quella terra in cui c’è ancora la nostra casa, con la porta sbarrata dal catenaccio, la casa di mia
nonna, inagibile, e mai più nostra. La fabbrica del mio bisnonno, con ancora il suo nome sulla soglia d’ingresso, mai più nostra. Quella terra meravigliosa, che ti strappa l’anima e la incatena al suo mare, ai suoi vicoli di pietre, ai suoi campi di olivi.
Posted on March 3, 2016