Nicolò Molea oggi ha più di settant’anni. Parla con voce ferma e fa attenzione a come sceglie le parole come se volesse essere sicuro di usare proprio quelle giuste, quelle esatte, per raccontare la sua storia. O meglio la storia di suo padre, Domenico, all’epoca giovane ufficiale della Finanza, uscito di casa un giorno del maggi del 1945 e mai più tornato.
«Mio padre era un ufficiale della Guardia di Finanza di Trieste, della caserma di Via Udine. Nel maggio del 45, quando arrivarono in città le truppe jugoslave che presero a fare retate di italiani e militari, accusati alla rinfusa di essere “fascisti”, le cose per gli ufficiali come lui presero subito a farsi pericolose. Nonostante questo lui non volle smettere di recarsi in caserma per fare il suo lavoro anche se sapeva, perché lo sapevano tutti, che poteva essergli letale».
E infatti così è stato, tanto che la mattina di quel maggio il signor Nicolò la ricorda ancora: «Ricordo mia madre che gli diceva di non andare, di non uscire di casa, ricordo me che, di soli quattro anni gli dicevo di non andare e poi, dopo aver capito che sarebbe uscito comunque, ricordo le ultime parole che gli ho detto “Papà ritorna”».
E invece no, perché dalla caserma il padre di Nicolò non sarebbe mai tornato. «Fu preso in una retata venduto da un suo stesso superiore che aveva preso a collaborare con i comunisti di Tito e consegnato i suoi uomini e compagni. Da quel giorno si persero le sue tracce per sempre».
Da qui in poi la storia che racconta Molea è lunga, dolorosa e piena di ombre: «La prigionia di mio padre è durata alcuni mesi, ma quella mia e di mia madre è stata lunga anni, perché per anni siamo stati prigionieri della speranza, continuamente delusa, di vederlo tornare. Non avevamo notizie se non quelle che arrivavano alla spicciolata, spesso inventate o sbagliate, da chi tornava dai campi di prigionia e ci raccontava che mio padre era stato visto prigioniero in un posto o in un altro».
Mettere insieme le informazioni, per Nicolò e per la sua famiglia è uno strazio, sostenuto solo dalla speranza che, seppure in condizioni difficili il loro amato marito e padre, fosse vivo: «Sapevamo che lo avevano spostato più volte, da un campo all’altro e che lo avevano costretto a lunghe trasferte a piedi durante le quali soffriva molto perché gli avevano rubato le scarpe. Sapevamo che si trattava di prigionie di estrema crudeltà, comparabili a quelle dei nazisti, senza cibo ne acqua, costretti a lavorare per ore e con torture, anche psicologiche come le finte fucilazioni».Però quelle che arrivano a casa sono solo voci, supposizioni, racconti di racconti: nessuno sa davvero se Domenico sia vivo o morto. «Ci sono voluti anni per sapere che fine avesse fatto mio padre e come sia morto, ucciso dai partigiani rosi e poi gettato nelle Foibe. Anni lunghi e vuoti, nei quali mia madre non ha mai smesso di andare alla stazione, ogni sera, con una foto di suo marito per chiedere informazioni, per sperare, per aspettarlo».
http://www.vanityfair.it/news/italia/16/02/10/giornata-foibe-storia
Posted on February 10, 2016