II Mulino – 01-GEN-2012 Roberto BelIoni e Francesco Strazzari Vent’anni dopo nella ex Jugoslavia Un pessimismo diffuso, talvolta accompagnato da sentimenti euroscettìci La ex Jugoslavia vent’anni dopo, fra sicurezza e geopolitica Quanto è difficile fare i conti con il passato Fra gli ultimi mesi del 1991 e la primavera del 1992 la guerra dilagava nel cuore dell’ormai agonizzante federazione jugoslava, estendendosi dai confini della Croazia alle montagne e alle città della Bosnia Erzegovina. Una lunga serie di conflitti armati sanguinosi, alimentati da un intreccio perverso di nazionalismo e interessi predatori e combattuti da un numero instabile di eserciti e bande criminali, avrebbe sconvolto la penisola balcanica. La diffìcile strada della transizione politica ed economica era deragliata; l’Europa e il mondo faticavano a capire. Nonostante la sicumera esibita dai tanti che, imbevuti di cliché balcanisti, trovavano nelle violenze la prova dell’artificialità della Jugoslavia, o dell’ipotesi di coesistenza fra comunità (e persino civiltà!), ci sarebbero voluti più di dieci anni perché la violenza separasse ciò che era stato unito, quando non intimamente mescolato, facendo risorgere su un fondale di intimidazione e pulizia etnica Stati-nazione che, visti da vicino, assomigliavano molto di più a etnocrazie sorte dal saccheggio dei cittadini. Spenti gli incendi principali grazie anche all’intervento militare iniziato dagli Stati Uniti, il decennio che sarebbe seguito sarebbe stato segnato dalla ricostruzione e dalla nascita di un nuovo ordine regionale rivolto all’Europa. I «Balcani occidentali» hanno compiuto notevoli progressi in campo economico, politico e sociale da quando, dandosi convegno a Zagabria nel 2000, l’Unione europea (Ue) ha iniziato ad articolare l’idea che il futuro di questa regione risieda nell’integrazione con le istituzioni europee, e che questa integrazione passi per nuove forme di cooperazione fra vicini che da poco hanno deposto le armi. Questo riconoscimento è coinciso con importanti cambiamenti avvenuti nella regione: su tutti, determinante l’uscita di scena degli artefici del disegno di Grande Serbia e Grande Croazia: il fautore della «guerra patriottica», nonché presidente della Croazia, Franjo Tudjman (deceduto nel 1999) e il leader serbo Slobodan Milosevic (caduto a Belgrado nel 2000 e deceduto a l’Aia in una cella del Tribunale per i crimini di guerra). Se comparata ai foschi scenari dipinti dalla gran parte degli osservatori all’indomani delle guerre, la regione ex jugoslava potrebbe essere vista oggi come in fase di piena rinascita. Le istituzioni democratiche locali sono riconosciute come legittime sia dai cittadini sia dalle numerose organizzazioni internazionali che ancora operano nella regione, con compiti di assistenza, monitoraggio e, talvolta, con poteri di intervento. A molti i Balcani richiamano alla memoria i termini drammatici della questione umanitaria. Oggi, in termini aggregati, i livelli di sviluppo appaiono accettabili: se si presta attenzione ail’«indice di sviluppo umano» -che combina reddito prò capite, livello d’istruzione e aspettativa di vita – se ne deduce che per lo più i Paesi ex jugoslavi possono essere considerati come «altamente sviluppati». Ciò premesso, alcuni seri problemi in ambito economico, politico e di sicurezza continuano a costituire una fonte di preoccupazione sia per le istituzioni politiche locali sia per gli attori internazionali che più si sono impegnati a sostenere un complesso processo di stabilizzazione e transizione della regione, l’Ue in primo luogo. Dal 2000 in avanti i Balcani occidentali hanno vissuto un periodo di crescita economica nominale considerevole. Il dato aggregato relativo alla regione mostra infatti, per esempio, una crescita media superiore a quella dei Paesi che sono diventati membri dell’ Ue nel 2004. Fino al 2009, il tasso di crescita annuo non è mai calato sotto il 4,7%, con un picco del 7% nel 2004. Lo schiarirsi degli orizzonti politici nazionali, pur costellato di contraddizioni e incertezze, ha certamente contribuito a rendere questo trend possibile. Nel 2000 Serbia e Croazia si sono avviate lungo un processo di transizione e di consolidamento delle istituzioni democratiche nel segno della «europeiz-zazione»; la crisi macedone del 2001 è stata affrontata e risolta, almeno parzialmente, prima che potesse evolversi in un conflitto armato su larga scala; l’indipendenza del Montenegro nel 2006 e quella del Kosovo nel 2008 non hanno innescato nuovi conflitti armati e – sia pure fra numerose ombre e incognite – hanno fornito una risposta a perduranti richieste di autodetenninazione nazionale, creando la base per nuove forme di relazione con la comunità internazionale. Forse è eccessivo considerare lo spazio ex jugoslavo come una prova del funzionamento dell’ipotesi di «pace liberale». Tuttavia, è innegabile che il decennio di ricostruzione assistita e State-building che è seguito al «decennio delle guerre* (e degli interventi militari Nato) abbia visto all’opera i tre elementi-chiave che caratterizzano tale ipotesi (istituzioni internazionali, democrazia e mercato), e che questo secondo decennio abbia registrato un progressivo miglioramento del quadro di stabilità politica generale. L’Ue ha garantito un trattamento preferenziale alla regione, eliminando le tariffe per quasi tutti i prodotti, e promuovendo un mercato unico dell’energia. Sempre in ambito commerciale, un ruolo di crescente importanza è svolto dal Cefta, accordo di libero scambio firmato nel dicembre del 2006 da Albania, Bosnia, Croazia, Kosovo, Macedonia, Moldavia, Montenegro e Serbia, il quale ha liberalizzato il commercio intra-regionale. Larga parte del commercio estero dei Paesi Certa si svolge oggi con l’Ue: quest’ultima ha incluso tra le richieste sottoposte agli aspiranti membri il requisito di creare aree di libero scambio. Gli Stati membri si sono impegnati alla progressiva liberalizzazione del settore dei servizi, a migliorare il coordinamento delle politiche per gli investimenti, ad assicurare maggiore trasparenza ed equità negli approvvigionamenti statali (government procurement) e a garantire la protezione dei diritti di proprietà intellettuale. In generale, la necessità di riforme strutturali volte a favorire la transizione verso un modello di economia liberale non è oggetto di discussione da parte delle elite locali, che invece riconoscono gli effetti positivi di tali iniziative. Tali effetti sono stati confermati anche dalla Banca europea per la Ricostruzione e lo sviluppo (Ebrd), che ha assistito e monitorato il processo di transizione all’economia di mercato, certificando una chiara correlazione tra le riforme richieste e la crescita economica. Ma occorre in primo luogo considerare il punto di partenza estremamente basso. Il quadro economico di vent’anni fa, alla vigilia della guerra, era quello di un Paese sprofondato nella crisi economica più dura vista in Europa dal dopoguerra. Le distruzioni belliche diedero 0 colpo di grazia alla produzione, e disarticolarono uno spazio economico integrato. Nonostante i risultati raggiunti, alcuni Paesi (Bosnia, Macedonia, Montenegro e Serbia) non hanno ancora recuperato il Pil del 1990. Le economie della regione rimangono poco competitive sul piano internazionale. Il World Economie Forum ha valutato la Bosnia al 100″ posto nella graduatoria globale sulla competitività per il 2011-2012 (su 142 Paesi considerati); la Macedonia si trova al 79″, la Serbia al 95J, il Montenegro al 60° e la Croazia al 76″. Nel 2008 le Nazioni Unite stimavano che, sulla base dei trend di crescita degli ultimi anni, e immaginando una rapida conclusione della crisi finanziaria globale, sarebbero occorsi circa 50 anni per i Balcani occidentali per raggiungere i livelli di sviluppo dell’Europa occidentale. Questi dati riflettono la persistenza di problemi strutturali. Lo spazio ex jugoslavo si caratterizza per forti deficit commerciali dovuti alle importazioni massicce e alla difficoltà a competere, e dunque a esportare. Corruzione e procedure burocratiche inefficienti ostacolano gli investimenti esteri, soprattutto in Bosnia, Macedonia e Serbia. Particolarmente preoccupante è l’alto livello di disoccupazione, che – secondo le stime ufficiali – varia dal 9% della Croazia, al 45% del Kosovo, passando per il 20% della Serbia, il 25% del Montenegro, il 30% della Bosnia, il 35% della Macedonia. In questo contesto il Kosovo è il fanalino di coda, con il poco invidiabile record di essere oggi il Paese più povero d’Europa (inoltre, l’Fmi è fortemente critico verso il mancato rispetto dei patti in tema di conti pubblici). Secondo la Banca mondiale, il 45% di questa popolazione vive sotto la soglia della povertà e il 14% ha difficoltà a soddisfare i propri bisogni nutrizionali. Il salario medio in Kosovo è di appena 200 euro al mese, contro i 750 della Croazia. Sia pure con gradi e modalità differenti da caso a caso, in tutti i Paesi della regione l’economia informale svolge un ruolo fondamentale ed è legata a dinamiche tanto di sopravvivenza dei molti quanto di arricchimento dei pochi. In Bosnia, ad esempio, il settore informale, letteralmente esploso fra guerra e dopoguerra, è solitamente stimato come ancora rappresentativo del 50% dell’economia. Nonostante il contributo dato al sostegno economico di individui e famiglie, l’economia informale priva gli Stati interessati di ingenti risorse e margini di manovra sulle politiche economiche. Essa inoltre si accompagna tipicamente al fiorire di nuovi modelli di ascesa sociale, che talvolta confinano con pratiche illecite e criminali. A fianco delle economie extralegali, la piaga della corruzione non accenna a guarire, secondo Transparency International, che punta il dito soprattutto su Macedonia, Serbia, Montenegro e Bosnia. I Paesi post-jugoslavi sono stati colpiti duramente dalla crisi finanziaria globale. Dal 2008 in avanti la produzione industriale in Serbia è crollata del 12%, in Montenegro del 31, in Croazia del 9. Solo Bosnia e Macedonia non hanno registrato forti riduzioni, ma solo per il momento. Drastiche misure di austerità e crescenti livelli di disoccupazione, povertà e diseguaglianza hanno inasprito un po’ ovunque il clima sociale. Gli analisti prevedono per il prossimo futuro che questi Paesi dovranno affrontare un lungo periodo di crescita lenta fronteggiando diffìcili problemi dovuti all’esclusione sociale di una parte significativa della popolazione. Per rispondere alla crisi, nel 2009 le istituzioni economiche e finanziarie hanno lanciato un’iniziativa ad hoc, conosciuta come «Vienna Initiative»: Ebrd e Imf si sono impegnati a far sì che le banche estere nella regione continuino a ricevere sostegno dalle proprie filiali in Europa occidentale, così da garantire investimenti e credito a livello locale. Difficoltà economiche strutturali, forte disoccupazione e alti livelli di corruzione costituiscono fondati motivi di preoccupazione. Non sorprende, quindi, il persistere tra i cittadini delle repubbliche ex jugoslave di forme di pessimismo diffuso, talvolta accompagnato a crescenti sentimenti euroscettìci. Nel 2006 e nel 2011 Ebrd e Banca mondiale hanno condotto un’interessante ricerca sulla «Vita in Transizione», somministrando ai cittadini di 28 Paesi, tra i quali quelli post-jugoslavi, una serie di quesiti relativi alla loro esperienza quotidiana; fra questi, domande circa l’attitudine nei confronti dell’economia di mercato e della democrazia, e giudizi sulle istituzioni e sui servizi pubblici. L’aspetto più sorprendente che emerge è forse il grado di insoddisfazione diffuso tra i cittadini, molti dei quali si mostrano fermi nel ritenere che le loro condizioni di vita fossero migliori nel 1990. Un atteggiamento che riflette, per un verso, la consapevolezza rispetto ai problemi che ancora affliggono la regione, e, per l’altro, la nostalgia per un tempo in cui le guide turistiche dell’Europa occidentale includevano le regioni jugoslave, e lo stesso accadeva per i tour dei più famosi gruppi rock. Allo stesso tempo, tuttavia, il pessimismo si riverbera negativamente sulle istituzioni emerse in seguito ai conflitti degli anni Novanta. In Bosnia, Croazia e Serbia, meno del 30% degli intervistati si dichiara favorevole alle istituzioni democratiche e all’economia di mercato e, anzi, si esprime a favore del ritorno a forme di governo autoritarie. Le guerre jugoslave hanno mietuto decine di migliaia di vittime, e portato la distruzione di infrastrutture e abitazioni, oltre all’ispessirsi di un clima di odio e sospetto tra i diversi gruppi etno-nazionali che a diverso titolo convivevano nelle strutture federate. Dall’inizio del processo di dissoluzione di queste strutture per mano di un vasto apparato di milizie ed eserciti più o meno regolari, la questione sicurezza, declinata tanto in termini militari tradizionali così come di soft-security issues, ha dominato l’agenda politica tanto nella regione quanto in Europa. Le guerre sono state accompagnale da flussi più o meno manipolati di milioni di rifugiati, di migranti e di commerci illegali che hanno fatto la fortuna di quelle cerchie affaristico-criminali che hanno pesantemente condizionato i processi di formazione dei nuovi Stati. L’eredità di questi intrecci, spesso coperti dalle fanfare dell’eroismo patriottico, si è dimostrata difficile da provare. Persino nella Croazia di oggi privatizzazioni manovrate, manipolazioni bancarie e scandali legati a corruzione e malversazione hanno avuto un peso determinante nell’orientare il dibattito pubblico, e nel condannare – in occasione delle elezioni tenute lo scorso dicembre – il partito nazional-conservatore Hdz all’opposizione di un governo saldamente in mano a una coalizione di centrosinistra. Ombre legate alla collusione con mafie e interessi criminali non hanno certo aiutato la reputazione del governo montenegrino e, più in particolare, quella della cerchia di potere vicina all’ex presidente Milo Djukanovic, già incorso in guai giudiziari anche con la magistratura italiana. Infine, volendo spostare lo sguardo sul Kosovo, va segnalato come gli apparati di intelligence occidentali continuino ad allertare circa la pervasività di intrecci fra organizzazioni criminali e potere politico, in questo caso formato in gran parte da ex combattenti, «protetti» da reti di sicurezza più o meno formalizzate. Non deve sorprendere il fatto che l’Ue, nell’attrezzare per il Kosovo la propria più importante missione di politica estera comune, abbia deciso di definirne nome (Eulex) e funzioni attorno a mie of law e standard di legalità. A ben guardare, non è per pura coincidenza che le contraddizioni europee su come gestire la crisi jugoslava si siano rese ben visibili durante il vertice di Maastricht di fine 1991, quando la Germania puntò i piedi e di fatto impose ai partner il riconoscimento delle secessioni di Slovenia e Croazia, contro le stesse raccomandazioni del comitato appositamente nominato da Bruxelles, che vedeva condizioni favorevoli in Slovenia e Macedonia. L’intero decennio di violenza che ne seguì ha visto l’Ue in posizione marginale sull’agenda degli interventi in materia di sicurezza e stabilità regionale, agenda che è stata egemonizzata dalla Nato, su diretto impulso statunitense. La presa in carico dello spazio post-jugoslavo da parte di Bruxelles avviene con gradualità, a partire da iniziative di ricostruzione e amministrazione civile in Bosnia, per poi allargarsi a missioni di polizia. È solo nel 1999, dopo la guerra del Kosovo, che l’Ue, oltre a sviluppare la propria politica estera anche in settori di difesa e sicurezza, concepisce una strategia regionale complessiva, architettando il Processo di stabilizzazione e associazione e – a partire dal Consiglio europeo di Salonicco del 2003 – dischiudendo esplicitamente la prospettiva dell’allargamento e della membership a tutti i Paesi ex jugoslavi. Il processo si basa sulla convinzione che stabilizzazione regionale e integrazione europea debbano procedere di pari passo, rafforzandosi vicendevolmente. In realtà, stabilizzazione e integrazione riflettono logiche differenti, e possono trovarsi in conflitto. La stabilizzazione si incardina sulla dimensione regionale, dal momento che i problemi della sicurezza hanno importanti aspetti transfrontalieri che non possono essere affrontati e risolti individualmente da ciascun Paese ex jugoslavo. Per contrasto, il processo d’integrazione si sviluppa in maniera bilaterale tra l’Unione e gli aspiranti Stati membri. In questo processo, fortemente segnato dalla logica della condìzionalità, alcuni Paesi partono da migliori condizioni iniziali oppure avanzano più velocemente. Di conseguenza, stabilizzazione e integrazione sono obiettivi difficilmente raggiungibili simultaneamente. In sostanza, anziché migliorare la cooperazione tra ex nemici, l’approccio regionale ha spesso alimentato tensioni e divisioni tra gli Stati coinvolti. Di fatto, tutti gli Stati ex jugoslavi hanno espresso riserve su questo approccio, esprimendo il timore che il processo di integrazione possa essere ostacolato e ritardato dalla presenza di Paesi inadempienti rispetto alle richieste europee. È comunque un fatto che, dai tempi delle guerre, in cui aveva guadagnato spazio l’immagine secondo cui «nei Balcani gli Stati Uniti cucinano, e gli europei lavano i piatti», l’influenza politica europea è cresciuta notevolmente in tutta l’area ex jugoslava. La Slovenia è entrata nella Ue già nel maggio del 2004; il Consiglio europeo di Bruxelles di dicembre 2011 ha deciso che la Croazia seguirà nel luglio 2013. Tutti gli altri Paesi restano uno o due passi indietro lungo il processo che porta ai negoziati di adesione. Tre sono le questioni di natura geopolitica parzialmente irrisolte attorno alle quali si avvita il futuro del processo di allargamento. In primo luogo, lo stato comatoso delle istituzioni bosniache. In secondo luogo, il continuo rinfocolarsi della disputa sul nome della Repubblica di Macedonia, che vede Atene e Skopjc protagoniste di una acrimoniosa quanto apparentemente insensata querelle archeologico-simbolica che, dopo averne soffocato i commerci, ha bloccato l’accesso della piccola Repubblica ex jugoslava alla Nato nel 2008, e che dal 2005 tiene di fatto i macedoni inchiodati allo status di «candidati Ue», senza consentire di aprire i negoziati. Una recente sentenza della Corte Internazionale di Giustizia segna un punto a favore di Skopje; tuttavia, l’ostinazione con cui i nazionalisti al governo in Macedonia non perdono occasione per provocazioni simboliche è figlia di un calcolo che fa leva sull’intransigenza greca a fini elettorali interni e non promette nulla di buono in prospettiva europea. La seconda questione riguarda le relazioni Serbia-Kosovo, a partire dal recente riattizzarsi di tensioni nei distretti settentrionali del neo-Stato a maggioranza albanese: in questa zona confinante con la Serbia la stragrande maggioranza della popolazione è serba, parla serbo e rifiuta di essere separata da Belgrado da un confine statale che non è mai esistito e da guardie di frontiera il cui arrivo equivarrebbe a riconoscere la sovranità di Pristina. Per parte sua il governo filo-europeo del leader democratico serbo Boris Tadic si trova in serie difficoltà, non riconoscendo l’indipendenza del Kosovo (come del resto 5 Stati membri dell’Ue), e dunque faticando a disconoscere le ragioni dei serbi del Kosovo settentrionale, i quali nel frattempo hanno provocatoriamente chiesto aiuto a Putin e cittadinanza alla Russia, L’escalation di violenze fra l’estate e l’inverno 2011, culminata in scontri che hanno visto, fra l’altro, il ferimento di decine di militari tedeschi e austriaci, ha indotto Tadic a parole di condanna, all’invito alla smobilitazione e ad accettare infine la presenza di doganieri e poliziotti albanesi al confine quali «osservatori». Da un punto di vista politico, le conseguenze delle guerre degli anni Novanta sono ancora ben visibili. Il Tribunale Penale per la ex Jugoslavia, con sede all’Aia, ha faticato non poco ad assicurarsi un livello minimo di cooperazione, indispensabile per arrivare all’arresto e all’espatrio dei presunti criminali di guerra. Nonostante la fine dei regimi autoritari in Croazia e Serbia, la cooperazione di questi Paesi non è mai stata completa. Solo il progressivo indebolimento dei network di sostegno politico ai maggiori responsabili dei crimini degli anni di guerra ha consentilo il raggiungimento di importanti risultati. Nel dicembre del 2005, il generale croato Ante Gotovina è stato arrestato a Tenerife ed estradato all’Aia per rispondere dell’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati durante l’Operazione Tempesta, nell’agosto del 1995, durante la quale più di 200.000 serbi vennero espulsi dalla regione croata della Krajina. Nel luglio del 2008 Radovan Karadizic, il leader politico dei serbo-bosniaci, è stato arrestato a Belgrado e subito estradato all’Aia. Nel maggio del 2011, stessa sorte è toccata a Ratko Mladic, il generale serbo responsabile, tra l’altro, dell’uccisione a sangue freddo di circa 8.000 uomini in seguito alla caduta dell’enclave musulmana di Srebrenica, nel luglio del 1995. Da alcuni anni il tribunale dell’Aia ha comunque iniziato a ridurre le proprie attività, concentrandosi sui casi più eclatanti, quali i processi a Karadzic e Mladic (Gotovina è stato condannato in primo grado, nell’aprile del 2011, a 24 anni di reclusione), e trasferendo gradualmente le proprie competenze ai tribunali locali, dove però il panorama legislativo per consentire il processo degli indiziati è spesso lontano dall’incontrare condizioni ideali. In molti casi vittime, testimoni e indiziati vivono in Paesi differenti della penisola balcanica. La cooperazione regionale, indispensabile, risulta spesso essere ancora inadeguata. A questo quadro si aggiunga che, secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati, circa 450.000 persone risultano ancora essere rifugiate o sfollate. Con la Dichiarazione di Sarajevo del febbraio 1998, Bosnia, Croazia, Serbia e Montenegro si sono impegnati a risolvere questo problema, ma molte scadenze sono state disattese. Due incontri recenti, tenuti a giugno e settembre 2011, hanno tentato di rilanciare il processo, ma, con l’esaurirsi delle risorse economiche destinate a favorire i ritorni, la risoluzione definitiva del problema appare ancora distante. Una domanda interessante (e una questione politica spinosa) riguarda la possibilità che la Repubblica serba di Bosnia possa legittimamente usufruire di un diritto all’autodeterminazione che, se esercitato, la porterebbe alla secessione dalla Bosnia. Da quando il Montenegro ha dichiarato l’indipendenza, nel 2006, e ancor più di fronte alla secessione del Kosovo, l’elite politica serbobosniaca ha chiesto a gran voce un referendum per determinare il futuro della propria Repubblica, attualmente una entità semiautonoma all’interno dei confini della Repubblica di Bosnia Erzegovina. Per tutta risposta, la leadership bosniaca bosgnacca (musulmana), che da sempre favorisce il rafforzamento delle istituzioni centrali a Sarajevo, dove i bosgnacchi sono maggioritari, ha richiesto l’abolizione dell’autonomia serbo-bosniaca. Nel frattempo, entrambe le parti si stanno riarmando. Secondo fonti di intelligence occidentale acquartierate a Sarajevo, associazioni di veterani, compagnie di sicurezza privata, e «gruppi di cacciatori» starebbero da tempo ammassando munizioni e armi. Per molti analisti il Paese è sull’orlo del collasso. Da un lato vanno riconosciuti i progressi formali compiuti. Le competenze dello Stato sono cresciute in maniera significativa. Ai tre ministeri creati dall’Accordo di Dayton, che pose fine alle ostilità nel 1995, altri sei si sono aggiunti nel corso degli anni, migliorando le capacità dello Stato bosniaco. Dopo un lungo braccio di ferro si è in qualche modo arrivati a una controversa riforma della polizia, cosa che in Bosnia significa parlare del monopolio della forza sul territorio. Questi passi avanti, tuttavia, nascondono una preoccupante paralisi politica. Richard Holbrooke, il principale artefice di Dayton, e Faddy Ashdwon, l’Alto Rappresentante della comunità internazionale in Bosnia tra il 2002 e il 2006, già nell’autunno del 2008 suonavano un campanello d’allarme circa la «polveriera bosniaca». Un anno dopo, «Foreign Affairs» pubblicava un lungo articolo sulla «morte di Dayton». Significativamente, dopo le elezioni dell’ottobre 2010, ancora dominate dai nazionalisti, sono stati necessari 14 mesi di negoziazioni e pressioni internazionali per formare un nuovo governo. Nel complesso, gli allarmi su un imminente, nuovo inizio delle ostilità causati dai passi dei serbo-bosniaci verso il referendum e l’indipendenza sono probabilmente da considerarsi esagerati. La Repubblica serba di Bosnia è composta da due territori non contigui pressoché impossibili da difendere militarmente senza aiuto estero. La Serbia, tuttavia, non ha oggi alcun interesse a sostenere cambiamenti allo status quo territoriale, in particolare da quando la sua candidatura all’Ue ha cominciato a riscuotere forte interesse e simpatia nelle capitali del vecchio continente. Ci sono poi altri aspetti che inducono a una certa freddezza rispetto a ipotesi di indipendenza della Repubblica serba di Bosnia. Mentre per Montenegro e Kosovo si possono rintracciare radici storiche, riconosciute – sia pure in forme diverse – anche dalle diverse costituzioni jugoslave, la Repubblica serbo-bosniaca è l’unica a essere sopravvissuta con un qualche profilo di formalità fra le tante entità autoproclamatesi Stato, che sorsero negli anni Novanta a seguito di campagne di pulizia etnica. La legittimità della richiesta serbo-bosniaca dell’indipendenza è oscurata da queste origini. Se per il Kosovo si può argomentare sull’autodeterminazione a partire dalla repressione che Belgrado ha esercitato sulla popolazione albanese, altrettanto non può dirsi circa la situazione dei serbi di Bosnia, i quali sono semmai tacciabili di aver cacciato la popolazione non-serba che abitava in questi territori. L’Ue si è trovata impreparata ad affrontare i focolai di crisi e guerra nei Balcani degli anni Novanta. Come anche per la serie di conflitti che lacerarono le altre federazioni socialiste, il processo di disintegrazione jugoslava fu speculare rispetto a importanti passi avanti nell’integrazione europea. L’implosione violenta dell’eterodossia jugoslava fu una «crisi nel momento sbagliato» – deflagrata mentre l’attenzione della comunità internazionale era rivolta alla fine dell’Unione Sovietica, all’unificazione tedesca, alla prima guerra del Golfo; essa fu anche una crisi nel luogo sbagliato» – ovvero una serie di scontri che spazzarono da Nord a Sud una regione che con la fine della Guerra Fredda aveva perso il proprio valore strategico. Sperimentata la tragica inutilità degli strumenti tradizionali di intervento, e una sostanziale sconfitta anche del peacekeeping su mandato umanitario delle Nazioni Unite, l;Ue vent’an-ni dopo pare aver messo insieme sia la volontà politica sia gli strumenti operativi per sostenere il molo da più importante attore internazionale nella regione, e offrire una prospettiva di integrazione a tutti ì Paesi di cui si compone lo spazio post-jugoslavo. Allo stesso tempo, tuttavia, la strategia europea d’inclusione presenta significative debolezze. La promessa di un futuro accesso all’Europa è indebolita sia dalla mancanza di un chiaro punto di arrivo temporale sia dalle preoccupanti dichiarazioni di importanti esponenti politici europei. Angela Mcrkcl c Nicolas Sarkozy hanno ripetutamente sostenuto l’opportunità di sviluppare una partnership «privilegiata» o «strategica» tra Ue e aspiranti Stati membri. Anche se tutti gli osservatori sono unanimi nel ritenere che queste dichiarazioni siano state volte a rallentare o impedire la possibilità d’ingresso della Turchia nell’Unione, esse non hanno certo rassicurato gli Stati ex jugoslavi circa la saldezza della propria «prospettiva europea». Ne hanno tratto giovamento, al contrario, le tante voci anti-europei-ste e nazionaliste. Se, in parallelo all’approfondirsi della «crisi esistenziale» dell’Ue davanti alla crisi economica odierna, l’allargamento della Ue a Sud Est e il completamento dell’integrazione della penisola balcanica vengono posti più nelle mani di mutevoli volontà politiche interne all’Unione che in quelle dello zelo riformista dei Paesi della regione, quest’ultimo si ritrova in fuorigioco. Con l’eccezione della Croazia, l’ingresso in Europa non è -per domani», ma parecchio distante nel tempo. Questa situazione crea un problema politico considerevole: mentre alle élite politiche locali viene richiesto di adottare riforme impopolari, che verosimilmente andranno a erodere le basi del sostegno interno, i vantaggi delle riforme, se arriveranno, saranno visìbili solo a lunga distanza. Questo vero e proprio gap temporale è difficilmente compatibile con le scadenze elettorali domestiche. Non sorprende, quindi, che l’atteggiamento dei politici nella regione sia talvolta riassunto dalla frase «voi fate finta di essere seri rispetto alla vostra volontà di includerci nell’Unione, e noi facciamo finta di adottare le riforme richieste». Il dato forse più rassicurante va trovato nel corso democratico imboccato con relativa convinzione da Croazia e Serbia, i due principali protagonisti, per divergenza politica e caratura economica, dello scontro che lacerò la Jugoslavia, trascinando tutti in una guerra civile costellata di pulizie etniche, saccheggi e campagne di aggressione. Uno spazio post-jugoslavo ancorato a due democrazie consolidate, promotrici di cooperazione regionale, e vincolate alla prospettiva europea, disegna uno scenario nel quale il veleno di cui sono portatrici le molteplici questioni nazionali può essere riassorbito in una visione supranazionale, nella quale territori e confini, eserciti e milìzie acquistano un valore sempre più relativo. Il martirio di Sarajevo, animato dallo scontro fra la campagna e la città etnicamente impura, può essere superato nella ridefinizione delle comunità nazionali in un fìtto reticolo di città e comunicazioni: sul superamento delle ostilità nazionali l’Ue e ha per parte sua una storia importante da raccontare. In questa luce, lo scenario più inquietante che può prospettarsi oggi è forse quello che vede una Serbia rancorosa, le cui legittime aspirazioni europee, concretizzatesi in riforme e scelte piuttosto chiare, finiscano per essere frustrate dall’impaludarsi delle volontà di una Ue sempre più esitante. Il rinvio di qualche mese della decisione sul conferimento dello status di candidato a Belgrado, motivato con le difficoltà al tavolo delle relazioni con il Kosovo da parte del Consiglio europeo dell’8 e 9 dicembre, stride con il fatto che il governo serbo si fosse allineato in extremis alle condizioni che gli erano state imposte dai 27, ancora una volta sotto dettatura della Germania. In assenza di interlocutori migliori, è davvero difficile pensare che uno scenario del genere – che vedrebbe una Serbia fuori binario, ma pur sempre attore principale in uno spazio ex jugoslavo che arranca, e una Croazia che entra nell’Unione – sia nell’interesse di qualcuno, se non delle forze nazionaliste, che hanno ritrovato fiato e ottenuto la testa del vice-premier serbo. Ancora una volta, anche per i Balcani passa la credibilità internazionale dell’Europa. Roberto Belfoni insegna Relazioni internazionali al Di parti mento dì Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento, dove coordina il Centro dì ricerca su Democrazia e Governance globale. È autore, tra l’altro, di State Building and International Intervention in Bosnia (Routledge, 2007). Francesco Strazzari insegna Teoria delle relazioni internazionali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Con il Mulino ha pubblicato Notte balcanica. Guerre, crimine, Stati falliti alle soglie d’Europa (2008).
Vent’anni dopo nella ex Jugoslavia
Posted in: Biblioteca storica
Posted on March 28, 2012