Rassegna Stampa Mailing List Histria – N° 791 – 03 Settembre 2011

Posted on September 9, 2011


568 – Il Piccolo 02/09/11 Pola, il “Va pensiero” all’Arena con Napolitano e Josipovic (Silvio Maranzana)

569 – Il Piccolo 02/09/11 Pola – Incontro Napolitano-Josipovic: Ma i profughi si presenteranno divisi, L’Unione degli istriani ha preteso un incontro separato dalla Federesuli (s.m.)

570 – Il Piccolo 31/08/11 Caso-Daila, a rischio il vescovo istriano – Il Vaticano intenderebbe punire mons. Milovan per la contrarietà a cedere il monastero ai frati (p.r.)

571 – Libero 25/08/11 Hollywood ricorda le Foibe, lacchetti co-regista (Almo)

572 – Il Piccolo 30/08/11 È scomparso Giacomo Bologna, una vita in politica, fu deputato per quattro legislature. Esponente di spicco degli esuli

573 – Quotidiano di Puglia Taranto 26/08/11 Un crispianese al triangolare del ricordo

574 – La Voce del Popolo 01/09/11 Cittanova – In crescita le istituzioni della CNI Imminente l’apertura del nuovo asilo (Franco Sodomaco)

575 – La Voce del Popolo 01/09/11 Cultura – Intervista a Ilona Fried: Fiume, una città emblematica dalle radici multietniche (Gianfranco Miksa)

576 – Alguer.it 27/08/11 La storia di Fertilia attraverso un libro, la storia di Emma una anziana madre che scrive una lunga lettera al figlio per raccontargli la sua fuga da Zara

577 – L’Arena di Pola 25/08/11 Il dialogo tra esuli e rimasti: una necessità storica (Giovanni Stelli)

578 – La Voce del Popolo 27/08/11 Zara, un «sepolcro di antichi splendori» (Mario Schiavato)

579 – L’Arena di Pola 25/08/11 Forsi qualcossa comincia a cambiar (Roberto Stanich)

580 – La Voce del Popolo 02/09/11 Trieste, dialogo e convivenza, un volume curato da Stelio Spadaro racconta gli italiani dell’Adriatico orientale (Rosanna Turcinovich Giuricin)

581 – L’Arena di Pola 25/08/11 Lettere in Redazione – Missione compiuta (Olga Milotti)

582 – Il Piccolo 28/08/11 “Dentro il labirinto” di Pahor racconta Trieste dopo il ’45 (Laura Strano)

583 – Il Messaggero 01/09/11 Mar Adriatico – Matvejevic: L’antico che genera isole (Predrag Matvejevic)

A cura di Stefano Bombardieri

Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti :

https://10febbraiodetroit.wordpress.com/

http://www.arenadipola.it/

568 – Il Piccolo 02/09/11 Pola, il “Va pensiero” all’Arena con Napolitano e Josipovic

Pola, il “Va pensiero” all’Arena con Napolitano e Josipovic

Domani attese 5mila persone per il concerto con i due Capi di Stato che incontreranno esuli e rimasti

Tra i possibili fuori programma una corona in ricordo della strage di Vergarolla e la posa di un ulivo

di Silvio Maranzana

TRIESTE Dopo sessantacinque anni il “Va pensiero” all’interno dell’Arena di Pola. Lo intonarono come un Inno dei vinti nel Ferragosto del 1946 le migliaia di italiani che in quei mesi furono costretti dalla dittatura comunista a lasciare la città (“Oh mia Patria, sì bella e perduta”). Lo canteranno domani esuli e rimasti assieme, dinanzi ai presidenti delle Repubbliche di Italia e Croazia, Giorgio Napolitano e Ivo Josipovic, al termine di una giornata storica. Le cerimonie potrebbero arricchirsi con appuntamenti fuori programma particolarmente significativi: il lancio di corone d’alloro in mare per ricordare la strage di Vergarolla che innescò l’esodo e per la quale forti sospetti pesano sull’Ozna, la polizia politica di Tito, e la posa davanti all’Arena, se ci sarà il via libera da parte della Soprintendenza ai Beni ambientali, di un olivo a simboleggiare un futuro di pace tra Italia e Croazia insieme nell’Unione europea.

Cinquemila persone sono attese all’Arena, dove l’ingresso sarà libero, alle 20 di domani sera. Duemila di queste giungeranno in pullman dalle cinquantuno comunità degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia, oggi in territorio sia croato che sloveno. Sul grande palco, creato per l’occasione, troveranno posto i cento componenti dell’Orchestra sinfonica della Radiotelevisione croata e i duecento coristi del Coro delle comunità italiane. Napolitano e Josipovic leggeranno una dichiarazione congiunta, in italiano e in croato subito dopo gli interventi del presidente della Regione istriana Ivan Jakovcic e del presidente dell’Unione italiana Furio Radin.

Il concerto sarà aperto dall’esecuzione dei due Inni nazionali e comprenderà poi brani di Verdi e Puccini e dei compositori croati Natko Devcic, Ivan Zajc, Ivo Tijardovic e Jakov Gotovac.

Ma l’altro evento epocale avverrà nel pomeriggio allorché gli esuli rappresentati dal vertice della Federazione incontreranno per la prima volta accompagnati dallo stesso Capo dello Stato italiano, il presidente della Repubblica di Croazia. L’incontro è fissato per le 17.30 nella vecchia Prefettura, oggi sede di rappresentanza dell’Esercito croato.

Ad esporre le ragioni degli esuli, presumibilmente soprattutto in tema di beni abbandonati e bilinguismo, il vicepresidente della Federazione, Lucio Toth. Alle 18.10 nella sede della Comunità italiana, l’incontro prima con i vertici dell’Unione italiana e poi con i rappresentanti delle comunità. Interverranno il presidente della Comuità di Pola Fabrizio Radin, il sindaco di Pola Boris Miletic, il presidente dell’Università popolare Silvio Delbello e il presidente della giunta esecuriva dell’Ui, Maurizio Tremul. Quindi prenderanno la parola il Presidente Napolitano e, anche questo fatto particolarmente significativo, il Presidente Josipovic.

569 – Il Piccolo 02/09/11 Pola – Incontro Napolitano-Josipovic: Ma i profughi si presenteranno divisi, L’Unione degli istriani ha preteso un incontro separato dalla Federesuli

Ma i profughi si presenteranno divisi
L’Unione degli istriani ha preteso un incontro separato dalla Federesuli

TRIESTE Ma non è tutto oro quel che luccica nella manifestazione epocale di domani a Pola che segue di poco più di un anno quella tenutasi a Trieste con l’intervento, oltre che di Napolitano e Josipovic, anche del presidente sloveno Danilo Turk per il concerto di Riccardo Muti in piazza dell’Unità d’Italia. Non solo esuli e cosiddetti “rimasti” incontreranno i due Capi di Stato in momenti e sedi diverse per ragioni di programma anziché in un incontro unico come auspicato dallo stesso presidente della giunta esecutiva dell’Ui Maurizio Tremul, ma gli stessi esuli si presenteranno ancora una volta spaccati tra loro, il che forse non contribuisce a dar forza alla loro istanze.

L’incontro principale è infatti fissato con la Federesuli alla quale aderiscono l’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, l’Associazione delle comunità istriane, il Libero comune di Fiume in esilio e il Libero comune di Zara in esilio che ha mutato denominazione in Dalmati italiani nel mondo. questo gruppo si è associato il Libero comune di Pola in esilio che però non fa parte della Ferderesuli sotto il cui ombrello ha rifiutato però anche solo di partecipare all’iniziativa l’Unione degli Istriani che comunque è riuscita a strappare un incontro separato con i due Capi di Stato.

«Siamo stati i primi a incontrare il presidente Josipovic e a esporgli le nostre ragioni già un anno e mezzo fa, adesso vogliamo incontrare da soli il Presidente Napolitano poiché anche se alcuni obiettivi possono coincidere con quelli che ha la Federesuli, posizioni e strategie rimangono profondamente diversi».

L’intransigenza dell’Unione degli istriani che chiedeva che i tre presidenti si recassero alla Foiba di Basovizza aveva rischiato di far saltare l’incontro di Trieste prima che il presidente di Federesuli Renzo Codarin sbloccasse l’enpasse proponendo la sosta di raccoglimento dinanzi al cippo che ricorda l’esodo in piazza Libertà.(s.m.)

570 – Il Piccolo 31/08/11 Caso-Daila, a rischio il vescovo istriano – Il Vaticano intenderebbe punire mons. Milovan per la contrarietà a cedere il monastero ai frati

Caso-Daila, a rischio il vescovo istriano
Il Vaticano intenderebbe punire mons. Milovan per la contrarietà a cedere il monastero ai frati

POLA Nell’attesa del 19 settembre, quando al Tribunale comunale di Buie si terrà l’udienza sul contenzioso riguardante il Monastero di Daila di cui i frati benedettini di Praglia (Pd) chiedono di ritornare in possesso, il quotidiano croato “Vecernji List” pubblica un ampio articolo secondo il quale sarebbe imminente la rimozione del vescovo istriano Ivan Milovan. Il Vaticano intenderebbe così punirlo per avere ignorato la precisa richiesta d’inoltrare ricorso contro il decreto del Ministero della giustizia di Zagabria con il quale la tenuta di Daila viene restituita allo Stato croato. Il vescovo sarebbe oggetto di forti pressioni per il suo atteggiamento contrario alla restituzione dell’immobile ai monaci italiani.

Citando un’indefinita fonte interna alla Chiesa, il giornale precisa che il decreto sulla rimozione del vescovo deve venire firmato in persona dal Santo padre che prima però dovrebbe informarsi dettagliatamente sull’intera vicenda. Sulla sua decisione potrebbe influire la forte lobby italiana nel Vaticano. Il vescovo intanto non sarebbe disposto a recedere, forte dell’appoggio di tutta la Chiesa croata a eccezione del primate, cardinale Josip Bozanic, che invece sta con la Santa Sede.

Tale affermazione del “Vecernji List” però è in contrasto con quanto dichiarato da alcuni parroci istriani secondo i quali ci sarebbero opinioni divergenti all’interno del clero istriano. I dissenti però non vogliono uscire allo scoperto: finora l’unico “sacrificio” è quello del cancelliere della Diocesi istriana Ilija Jakovljevic, rimosso per avere alzato troppo la voce contro il Papa e il card. Bozanic. Addirittura sarebbe stato mandato via dall’Istria ma nessuno sa dove si trovi. L’Uskok (l’Ufficio croato anti-criminalità organizzata e corruzione) sta indagando sulla vendita di circa 200 ettari della tenuta di Daila, il cui valore complessivo è stimato su circa 100 milioni di euro. Il punto da chiarire rimane il cambiamento della destinazione d’uso degli immobili dopo la vendita, diventati dal giorno alla notte lotti edificabili per il turismo commerciale. Si confida che la mgistratura agisca professionalmente.

Stando a fonti non ben definite all’interno della Chiesa alle quali si richiama il “Vecernji List”, a fare scoppiare la vicenda di Daila sarebbe stato il cardinale sloveno Franc Rode, ritenuto la figura-chiave fino a che è stato prefetto della Congregazione per il clero. Ora si è ritirato da Roma e vive nel lussuoso Castello di Goricane presso Lubiana. I media sloveni si chiedono con quali soldi il maniero sia stato restaurato, dato che la Chiesa da quelle parti ha grossi problemi finanziari. E si ricorda l’auto del cardinale: la sportivissima Mercedes Cl Amg-55. (p.r.)

571 – Libero 25/08/11 Hollywood ricorda le Foibe, lacchetti co-regista

Il conduttore avrà anche un cameo

Hollywood ricorda le Foibe, lacchetti co-regista

■■■ L’America fa un film sulle Foibe, ambientato in parte a Los Angeles e in parte a Trieste. E Enzo Iacchetti farà il co-regista per la parte ambientata a Trieste. Lo ha detto all’Ansa lo stesso lacchetti, ospite del Festival Idea Format Tv (If-Tv) in corso al PalaRiviera di San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno), dove le giova­ni idee si incontrano con il mercato televisivo.

Parlando dei suoi prossimi impegni, lo storico conduttore di Striscia ha detto: «Dal 26 settembre fino alla Befana ri­prendo Striscia la Notizia, quindi da me tà gennaio per tre mesi ripropongo il tour teatrale Niente progetti per il futuro con Giobbe Covatta, che ha avuto molto suc­cesso l’anno scorso, con il quale andrò in giro in tutta Italia. Quindi a maggio sarò a Trieste per fare il regista di Foibe, un film americano della Listen Production (casa di produzione con base a Santa Monica, in California, ndr), al quale collaboreran­no anche altri produttori, che uscirà nel 2013 negli Stati Uniti. In Italia non si sa ancora». lacchetti avrà anche un carneo nella parte del film girata a Hollywood, «ma quello che mi fa più piacere», ci con­fida «è che dopo aver visto un mio lavoro da regista, il cortometraggio Pazza di te, storia di una giovane mamma che acco­glie la nascita di un bimbo down, mi hanno affidato la direzione della secon­da unità produttiva in Italia».

Le prime notizie sulla pellicola, peral­tro, erano già circolate lo scorso febbraio. Innanzitutto, la trama. Il film racconta le vicende durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale che hanno portato alla morte di migliaia di italiani, torturati e uccisi e poi gettati nelle Foibe. Una stra­ge che ha coinvolto donne e bambini, militari e gente comune. Da Norma Cossetto a Don Francesco Bonifacio, dai mi­litari uccisi alle famiglie torturate, Foibe racconterà la loro storia e le verità rima­ste nascoste. Poi si era parlato anche del­la sceneggiatura, affidata a un giovane italiano, John Kaylin (alias Mirko Zeppellini), appoggiato dalla Lega nazionale, l’associazione nataper difendere l’ita­lianità di Trieste e della Venezia Giulia.

Proprio Kaylin aveva spiegato a La vo­ce del popolo che l’opera cinematografi­ca sarebbe stata suddivisa in tre diverse epoche: «Si parte nel 2011, quando du­rante una lezione di storia contempora­nea un professore statunitense illustra ai propri studenti gli eventi legati alle foibe e discute con loro il perché di un film su questo argomento. S ipassa poi a focalizzare il periodo tra il 1942 e il 1949, dove vengono raccontate le singole storie de­gli infoibati, il tutto corredato da riprese che mostreranno l’esodo dall’Istria e la vita nei campi di concentramento titini dopo la Seconda guerra mondiale. Il ter­zo periodo racconterà, invece, la missio­ne intrapresa dal sottotenente Mario Maffi, verso la fine degli anni Cinquanta, con l’incarico di documentare l’esisten­za delle foibe, la quantità e, dove fosse possibile, l’identità delle vittime. Da quella missione venne consegnato un dossier, perso negli anni».

ALMO.

572 – Il Piccolo 30/08/11 È scomparso Giacomo Bologna, una vita in politica, fu deputato per quattro legislature. Esponente di spicco degli esuli

Morto Bologna, una vita in politica

Dirigente Dc, fu deputato per quattro legislature. Esponente di spicco degli esuli

È scomparso Giacomo Bologna, per decenni figura di spicco della vita politica, non solo cittadina. Era nato a Isola d’Istria nel 1922. Di formazione cattolica, si avvicinò agli ambienti antifascisti fino ad entrare nel Cln clandestino, divenendo poi responsabile della Dc di Isola. Dopo la guerra, il clima di repressione e di scontro politico con le forze di Tito indussero Bologna a temere per la propria incolumità. Si rifugiò così a Trieste. Qui proseguì il suo impegno nella Democrazia cristiana e nelle organizzazioni degli esuli. Consigliere comunale dal 1949 al 1952, consigliere nazionale della Dc dal 1952 al 1959, Bologna venne eletto deputato Dc per Trieste, restando in Parlamento per quattro legislature, dal 1958 al 1976. Tramite l’impegno politico intessè rapporti con i maggiori esponenti della Dc (De Gasperi a Dossetti, Fanfani, Andreotti, Scalfaro), e

svolse anche incarichi parlamentari all’estero fra cui al Consiglio d’Europa.

Nel mondo degli esuli divenne prima presidente dell’Associazione delle Comunità istriane, da cui si allontanò nel 1972 per approdare all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, di cui fu responsabile triestino e vicepresidente nazionale. Nel 1975 Bologna entrò in rotta di collisione con la Dc, quando il partito e i suoi leader locali sostennero la ratifica del Trattato di Osimo. Bologna si battè contro la ratifica del trattato, trovandosi però in minoranza e infine abbandonando il partito. Venne quindi invitato ad aderire alla Lista per Trieste, di cui nel 1978 fu assessore

comunale e subito dopo consigliere regionale, rappresentandone l’ala cattolica di provenienza democristiana.

L’approdo alla Lpt non segnò però l’inizio di una nuova stagione politica per Bologna, che maturò posizioni critiche verso la gestione della Lpt, giudicandola rinunciataria nei confronti dell’ex Zona B e di Osimo. Si staccò così dalla Lpt, chiudendo nel 1983 il suo ultimo mandato istituzionale. Da allora ha operato a livello sociale nelle organizzazioni degli esuli, e come presidente dell’Ente Rinascita Istriana, storica emanazione del disciolto Cln dell’Istria. «Bologna – ricorda Renzo Codarin, che negli anni ’90 gli subentrò come presidente provinciale dell’Anvgd – ha avuto nella Dc locale e nazionale un ruolo importante. Coerente con le sue idee, ha pagato di persona. Non aveva paura di parlare di vicende legate al nostro confine. In Parlamento si ragionava di foibe già all’epoca, ma non si era compresi. Non ha mai mollato, passando a noi il testimone della protesta e della sensibilizzazione».

573 – Quotidiano di Puglia Taranto 26/08/11 Un crispianese al triangolare del ricordo

LA MANIFESTAZIONE

Un crispianese al triangolare del ricordo

Anche un giovane della Puglia scenderà in campo per il Triangolare del Ricordo, l’attesissi­mo incontro di calcio rievocativo che verrà di­sputato il 21 settembre allo Stadio Flaminio di Roma dalle tre storiche squadre italiane di Pola, Fiume e Zara, ricostituite per l’occasione dopo 70 anni dal loro scioglimento. A indossare le maglie del Grion Pola, della Fiumana e del Dal­mazia saranno i discendenti degli esuli giuliano-dalmati provenienti da Italia, Svizzera, Stati Uniti, Canada, Argentina e Sudafrica, tra i quali scenderà in campo per la squadra istriana del Grion Pola Danilo Giannini di Crispiano. Alla loro guida tre tecnici d’eccezione come Sergio Vatta, Lucio Mujesan e Pierluigi Pizzaballa.

L’evento, che gode del patrocinio delle più importanti istituzioni e della FederCalcio, ha inoltre un importante risvolto benefico, rappre­sentato da una raccolta fondi in favore della Fondazione Stefano Borgonovo per la ricerca di una cura alla Sclerosi Laterale Amiotrofica, la terribile malattia contro la quale da anni lotta lo stesso calciatore. Nel corso del Triangolare è prevista anche la consegna dei Premi Internazionali del Giorno del Ricordo, che quest’anno sa­ranno assegnati a prestigiose personalità del mondo dello sport giuliano-dalmato, tra cui il marciatore fiumano Abdon Pamich, il pugile istriano Nino Benvenuti, il pilota istriano di For­mula Uno Mario Andretti, l’atleta e stilista dal-mato Ottavio Missoni, la lanciatrice del disco dalmata Gabre Gabric e la schermitrice di origi­ne istriana Margherita Granbassi. Caratterizzerà la giornata l’intramontabile voce e presenza del grande Bruno Pizzul.

Infine, a dare ulteriore spessore all’iniziativa sarà un interessante convegno sullo sport giulia­no-dalmato curato dalla Società Italiana di Sto­ria dello Sport in collaborazione con l’Associa­zione Nazionale Atleti Olimpici e Azzurri d’Ita­lia. Tutti gli eventi in programma sono coordina­ti dall’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, l’ente no-profit che ha ideato e orga­nizzato la manifestazione. Le informazioni e i dettagli sono contenuti su http://www.triangolaredelri-cordo.it. L’ingresso alle manifestazioni è gratui­to ma vanno richiesti preliminarmente gli inviti all’Associazione (06 5816852 o grandieventi@ anvgd.it).

574 – La Voce del Popolo 01/09/11 Cittanova – In crescita le istituzioni della CNI Imminente l’apertura del nuovo asilo

CITTANOVA Investimento comune di Città, Unione Italiana e Università popolare di Trieste
In crescita le istituzioni della CNI Imminente l’apertura del nuovo asilo

CITTANOVA – Oramai l’inizio dell’anno scolastico, previsto per lunedì, 5 settembre, si sente nell’aria: gente che affolla librerie e cartolerie, insegnanti e presidi alle prese con i programmi didattici. A Cittanova l’inizio dell’anno scolastico porterà alcune novità, anticipate dal sindaco, Anteo Milos, nel discorso fatto in occasione della Giornata della Città e del patrono San Pelagio, che precede di pochi giorni l’inizio delle lezioni. Il sindaco ha infatti annunciato, con grande soddisfazione, l’imminente conclusione dei lavori di costruzione del nuovo asilo (italiano e croato), realizzato congiuntamente dalla Città, dall’Unione Italiana e dall’Università Popolare di Trieste.
Un impianto che arriva a un anno di distanza dall’inaugurazione della nuova sede della locale Comunità degli Italiani e che forse sarà aperto già il 16 settembre. Un investimento importante per gli italiani della zona, ufficializzato la primavera scorsa con la firma di una Lettera di intenti fra gli enti citati. Alla firma del documento erano intervenuti il sindaco di Cittanova, Anteo Milos, il presidente e il direttore generale dell’UPT, Silvio Delbello e Alessandro Rossit, il presidente della Giunta esecutiva dell’UI, Maurizio Tremul, il preside della SEI, Luka Stojnić, la presidente della CI, Paola Legovich Hrobat, e Glauco Bevilacqua, presidente del Comitato esecutivo della CI.
L’UI e l’UPT, con il contributo del governo italiano, allora si erano impegnate a stanziare 100mila euro, ma anche ad inserire delle nuove sezioni educative nella rete scolastica delle istituzioni prescolari e scolastiche della CNI, con specifico riferimento all’acquisizione del diritto all’assegnazione delle donazioni del ministero degli Affari esteri della Repubblica Italiana, quali mezzi e attrezzature didattiche, libri, abbonamenti a riviste professionali, nonché aggiornamento linguistico e culturale dei docenti.
La Città, invece, si era impegnata a finanziare i lavori di ristrutturazione e di ampliamento della sede per una superficie complessiva di 295 metri quadrati di spazi interni e di 126 metri quadrati di esterni. Inoltre, si era impegnata a sostenere le spese di manutenzione dell’asilo e il finanziamento permanente del necessario numero di educatrici, personale di consulenza e didattico.
Per il soggiorno dei bambini da 1 a 3 anni è prevista un’unità di nido, che comprenderà oltre alla stanza per il soggiorno anche il guardaroba, il fasciatoio e lo spazio per l’assistenza ai bambini, completo di attrezzature sanitarie, mentre per il soggiorno dei bambini dai 3 ai 6 anni sono previste due unità di asilo, che comprenderanno altre due stanze per il soggiorno, la terrazza, lo spazio giochi esterno e una stanza per le educatrici.

In prima classe 8 alunni

Luka Stojnić, preside della Scuola italiana di Cittanova, nell’ambito della quale opera l’asilo d’infanzia, in concomitanza con il prossimo inizio dell’anno scolastico ha ricordato che quest’anno la scuola sarà frequentata da 51 bambini, dei quali 8 i neoalunni della prima classe, uno in più rispetto allo scorso anno. L’asilo italiano sarà invece frequentato da 37 bambini, due in più rispetto all’anno scorso, e una volta inaugurato offrirà un soggiorno di gran lunga migliore rispetto al passato, in virtù dell’ampliamento dell’edificio gestito in comune con l’asilo croato “Tičići”.
A Cittanova molte cose sono cambiate, sia sotto il profilo economico che urbanistico e scolastico. Una città in grande crescita, prima in Croazia per standard di vita, con notevoli progressi che hanno riguardato anche le nostre istituzioni.
“Quando gli interessi sono comuni, e qui penso sia alla Città che all’Unione Italiana e all’UPT – dice Stojnić -, anche la realizzazione di investimenti così importanti diventa più facile. Dobbiamo puntare sul trinomio Scuola – Comunità – Asilo, in modo da far girare il volano nel verso giusto. L’asilo è importante, offrirà servizi di gran lunga migliori, la CI è un punto di riferimento dei nostri connazionali, la Scuola è una sicurezza per tutti”.
Per quanto riguarda eventuali interventi all’edificio scolastico, il preside ha ricordato che l’edificio è gestito dalla scuola croata “Rivarela”, ragion per cui all’evenienza saranno concordati assieme, con il sostegno della Regione e della Città. Se un giorno alla Scuola croata dovesse servire tutto l’edificio, vista la costante crescita della città, ha concluso il preside, allora bisognerà costruire una Scuola italiana nuova.

Franco Sodomaco

575 – La Voce del Popolo 01/09/11 Cultura – Intervista a Ilona Fried: Fiume, una città emblematica dalle radici multietniche

Intervista a Ilona Fried, ricercatrice ungherese, autrice
di una esaustiva sintesi sulla storia del capoluogo quarnerino
Fiume, una città emblematica dalle radici multietniche

La studiosa intende approfondire l’analisi di personalità quali Paolo Santarcangeli, Miklós Vásárhelyi, Leo Valiani, Antoniazzo Bocchina, Rosemarie Wildi Benedict

TRIESTE – È un’autrice ungherese il cui saggio ha il merito di presentare la ricca e singolare storia di Fiume, attraverso il procedimento della ricerca interdisciplinare per evocare la memoria di questo luogo. Stiamo parlando di Ilona Fried, ricercatrice e italianista dell’Università Elte di Budapest, nota al pubblico per essere appunto l’autrice della monografia “Fiume, città della memoria” (trad. it di Lavinia Sándor, Udine 2005), apparso per i tipi della Del Bianco editore, nella prestigiosa collana “Civiltà del Risorgimento”, per conto del Libero Comune di Fiume in Esilio.

È un minuzioso volume che ricostruisce in un vasto e dettagliato affresco le civiltà e le culture fiorite a Fiume tra il 1868 ed il 1945. Una città che in quel periodo era un crogiuolo multiculturale e multietnico tipicamente mitteleuropeo, con una particolare attenzione per i progressi che ha portato questa unione, dall’architettura al genio meccanico, dalla letteratura all’arte.

Da dove l’interesse per lo studio su Fiume?

“L’interesse è nato da una ricerca iniziata su Trieste. Man mano che sono andata avanti con gli studi ho trovato sempre più documenti, materiali mai studiati su Fiume e ho sentito sempre di più la sfida di usare quelle fonti. Mi sono sentita coinvolta anche nella ricerca di radici comuni di quel mondo di crocevia tra la Mitteleuropa, la cultura italiana e il mondo slavo. Ho considerato Fiume come città emblematica per le radici di una convivenza multietnica che all’epoca era particolarmente tipica dell’Austria-Ungheria.

Le grandi opere – sia la raccolta dei documenti riguardanti la storia di Fiume di Kobler, sia il volume ‘Fiume e la costa ungaro-croata’ nella collana Città e contee dell’Ungheria –, erano uscite più di cent’anni fa, nel 1896, quando si tennero le celebrazioni per il millennio dell’Ungheria. Così dopo i primi due anni della ricerca, a partire dal 1995, ho proseguito gli studi su Fiume per altri 7 anni, nel tempo libero. Ho così abbinato, quando potevo, il lavoro nelle biblioteche e negli archivi all’estero, agli incontri con i personaggi che volevo intervistare o consultare ad altri viaggi.

Il libro (Fiume, città della memoria), come indicato già nel titolo, si pone in sintonia con gli studi recenti sulla memoria, sulla memoria storica, e tratta di memorie della città. Accanto alle memorie, ricostruzioni molto personali e soggettive della città di una volta, vengono citate una serie di fonti interdisciplinari: storiche, economiche, demografiche, culturali e letterarie; perciò anche le opere letterarie si affiancano alle corrispondenze e ai memoriali. Oltre ai ricordi delle persone, ho raccolto riferimenti sia della letteratura italiana, sia di quella ungherese (il volume ungherese comprende anche un’antologia letteraria di alcune di queste opere).

Come ho illustrato nella presentazione del libro, essendo italianista, pur sottolineando il carattere multietnico e multiculturale della città, mi sono concentrata soprattutto sugli aspetti di spicco della cultura italiana e di quella ungherese (quest’ultima era naturalmente di minore rilievo rispetto a quella italiana).

Poiché il mio è nato come interesse professionale e non ho legami familiari, personali, con l’area fiumana, la mia intenzione era quella di ottenere una visione il più possibile oggettiva basandomi sugli studi degli storici ungheresi e italiani e quando avevo fonti sufficienti anche jugoslavi e se possibile croati. Ho riportato per esempio una critica della politica ungherese nei confronti delle etnie attraverso gli scontri tra ungheresi, italiani e croati, nel periodo a partire dagli ultimi anni dell’800 fino al crollo dell’Austria-Ungheria, come viene sostenuto fra gli altri da Leo Valiani.

Pur trattando di aspetti dell’italianità e della presenza ungherese, ho ritenuto importante segnalare, nei limiti delle mie possibilità, anche i risultati delle ricerche croate – non conoscendo il croato, ho letto saggi pubblicati in italiano, in inglese e in francese oltre che in ungherese e mi sono fatta tradurre quelli in croato. Spero così di aver contribuito – avendo sottolineato alcuni aspetti della storia e della cultura della città –, anche alle ricerche croate”.

Ha avuto delle difficoltà nell’effettuare il lavoro di ricerca?

“La ricerca è stata molto complessa e difficile, è per questo che ci ho messo molto più tempo del previsto. Ho dovuto costruire un’immagine basandomi su mosaici, materiali scarsi e consultazioni con colleghi, con personaggi di spicco del mondo fiumano e di persone comuni che condividevano con me i loro ricordi, le loro storie familiari. Sono riuscita a raccogliere una maggiore quantità di materiale sulla storia culturale del periodo in cui Fiume faceva parte dell’Austria Ungheria, rispetto a quello dell’autonomia fiumana del 1918-1924 e sul periodo successivo.

Non ho confrontato i documenti e le ricerche con le memorie, ho lasciato parlare gli uni e gli altri. Cronologicamente, dopo il crollo dell’Austria-Ungheria, ho sottolineato alcuni degli aspetti del periodo dannunziano, basandomi anche sugli studi più recenti su D’Annunzio, che lo vedono ormai nella complessità dell’uomo politico e del letterato – la sua impresa viene considerata come violazione della legge internazionale, ma anche come un insieme delle diverse componenti ideal-culturali e formazioni politiche che lo circondavano.

Ho quindi proseguito con il breve periodo zanelliano, dell’autonomia fiumana, ostacolata poi con ogni probabilità dai gruppi fascisti, fino all’epoca dell’appartenenza all’Italia. In particolare emerge la mancata tolleranza nei confronti delle etnie, che risulta anche dalle opere letterarie di Vegliani, del quale riporto alcune citazioni. Raccoglievo del materiale anche durante gli anni della guerra in Jugoslavia e nel periodo appena successivo sono venuta a Fiume per condurre altre ricerche e interviste direttamente nella città.

In realtà non sono riuscita a lavorare efficacemente: in una delle biblioteche ho cercato anche opere su Frano Supilo, patriota croato. Non ho trovato nulla, per di più mi hanno fatto capire che per leggere libri anche sul posto avrei dovuto pagare cifre alte che io non potevo permettermi (anche perché dopo i primi due anni non avevo più fondi di ricerca, portavo avanti gli studi per il mio personale piacere).

Quanto alle interviste, non se ne poteva parlare. Per fortuna la Biblioteca Nazionale Ungherese – grazie a scambi interbibliotecari probabilmente risalenti agli anni ’60-70 – aveva preso materiale da biblioteche di Fiume che potevo consultare a Budapest in microfilm.

Sono tornata nel 2002, dopo la pubblicazione del mio primo libro in ungherese (‘Emlékek városa. Fiume’, 2001), e ho fatto ricerche prima di tutto nell’Archivio di Stato e per quel poco che potevo anche nella Biblioteca dell’Università per il secondo libro (’Fiume. Magyar emlékek nyomában’ 2004), che ho pubblicato solo in ungherese, sui ricordi ungheresi a Fiume e ad Abbazia. Ho avuto allora a disposizione i volumi pubblicati dagli storici dell’arte fiumani, ricerche importanti e molto approfondite sul patrimonio architettonico della città e ho trovato molta disponibilità da parte loro, oltre che dagli archivisti e dai bibliotecari.

Tuttavia, la parte maggiore e più interessante del materiale che studiavo sia dell’Archivio di Stato, sia della Biblioteca dell’Università allora non era stata inventariata, e ciò sicuramente non facilitava il lavoro”.

Il suo libro ha riscosso un notevole successo, soprattutto nell’ambito della storiografia italiana. Come è stato accolto dagli storici croati?

“Sì, il libro ha avuto riscontri molto positivi sia da parte degli studiosi in Ungheria sia in Italia. Per quel che riguarda i colleghi croati, ho avuto qualche incontro positivo e scambi di idee anche a Fiume, ma non con degli storici: devo dire che già prima della pubblicazione del mio libro avevo cercato dei contatti con studiosi fiumani, così come dopo il 2001, quando sono stata varie volte nella città, anche in occasione di un convegno e per le presentazioni dei miei libri.

Ho scritto all’Università, ho scritto anche a uno storico di cui mi avevano fornito l’indirizzo, ma non ho ottenuto nessun riscontro, non mi hanno mai contattato. Ogni volta che passo per Fiume o nei dintorni, cerco di vedere le loro pubblicazioni, di capire se siano già uscite per esempio una guida o una storia approfondite di Fiume”.

Che sensazione ha provato la prima volta nel visitare la città?

“È stato molto interessante vedere i luoghi ‘della memoria’, capire di più rispetto a quello che avevo studiato precedentemente sulla carta. Alcuni di questi luoghi sono ristrutturati, altri abbastanza malandati – ma si spera che un giorno anche questi possano essere rinnovati. Nel porto ci sono ancora bitte d’attracco di fabbriche ungheresi che risalgono più o meno a cent’anni fa. L’architettura parla ancora di quella interculturalità, grande mescolanza di genti, che era l’Austria-Ungheria”.

Le ricerche inerenti Fiume si possono dire concluse?

“Le ricerche sono certamente concluse. Ma da un certo punto di vista non lo possono mai essere, perché dopo un periodo così lungo di tempo, di energie e anche di legami personali nati con un lavoro che è stata anche una passione, ogni tanto torno a pensare, a scrivere sull’argomento, come ho proseguito le ricerche su Leo Valiani e sulle riviste letterarie italiane. Ho fatto ancora qualche intervento su Fiume in giro per il mondo e ci sono sempre punti interrogativi che destano la mia curiosità. Comunque, come ricerca principale in questo momento mi occupo di altro”.

Che cosa può anticiparci delle prossime fatiche?

“Attualmente sono tornata agli argomenti a cui mi ero dedicata in precedenza, e che non vorrei del tutto trascurare, che sono la letteratura moderna e il teatro. Anche perché una delle grandi difficoltà dal punto di vista umano è che molte delle persone da me intervistate sono morte: Paolo Santarcangeli, Miklós Vásárhelyi, Leo Valiani, Antoniazzo Bocchina, Rosemarie Wildi Benedict. Posso avere la soddisfazione di aver raccolto le loro testimonianze, ma la loro perdita è molto triste.

Per quel che riguarda eventuali ricerche su Fiume, dipenderanno anche dalle occasioni che potranno presentarsi. Comunque, cerco di seguire i risultati delle ricerche degli altri studiosi, spunti anche nuovi che emergeranno per esempio su problematiche che io non potevo prendere in esame, come quelle relative alla borghesia, agli imprenditori, agli intellettuali croati in quel periodo.

Quando sono entrata a Villa Ružić, e ho visto la biblioteca e l’archivio Mažuranić-Brlić- Ružić, ho respirato proprio la Storia con la ‘s’ maiuscola, e mi veniva voglia di capirne di più. Del resto, nel mio secondo libro descrivo anche Villa Ružić. Naturalmente, anche in questo caso ci vogliono ricerche molto approfondite e spero che i giovani le facciano. Quanto ai miei studi, la mia materia specifica è ancora la letteratura, perciò mi incuriosisce anche approfondire ulteriormente la letteratura italiana e ungherese che riguardano Fiume”.

Gianfranco Miksa

576 – Alguer.it 27/08/11 La storia di Fertilia attraverso un libro, la storia di Emma una anziana madre che scrive una lunga lettera al figlio per raccontargli la sua fuga da Zara

Il libro Josefa Rhocco racconta la storia di Emma una anziana madre che scrive una lunga lettera al figlio per raccontargli la sua fuga da Zara durante la seconda guerra mondiale. E´un evento promosso da Nemapress; parteciperanno alcuni esuli giuliani di Fertilia

La storia di Fertilia attraverso un libro

ALGHERO – Lunedì 29 agosto alle ore 19 presso la Sala Consiliare del Comune di Alghero, la Nemapress, in collaborazione con l’Associazione culturale PensieroAvventura e l’Associazione Salpare, presenta l’ultimo titolo della collana Narrativa, il romanzo della scrittrice romana Josefa Rhocco “Un luogo dove restare”.

Il libro racconta la storia di Emma un’anziana madre che scrive una lunga lettera al figlio per raccontargli la sua storia, figlia di un italiano e di una croata, in fuga da Zara durante la seconda guerra mondiale. Pur con personaggi e vicende prodotte dalla fantasia della scrittrice, questo libro rievoca fatti storici realmente accaduti. Pertanto sono stati coinvolti i profughi giuliani che hanno popolato Fertilia e sarà presente, per una testimonianza, il prof. Fabio Mura, Presidente del Comitato E.GI.S. Ente Giuliano di Sardegna, insieme a profughi partiti dalla città di Zara.

Alla presenza dell’autrice, il libro sarà illustrato da Neria De Giovanni, Presidente dell’A.I.C.L. – Associazione Internazionale dei Critici Letterari e direttrice delle collane Nemapress, e dal giornalista dell’Agenzia AGI di Roma, Salvatore Izzo. L’evento, aperto dal saluto del Presidente del Consiglio Comunale, Antonello Muroni, vedrà in chiusura Maria Grazia Pes leggere la sua poesia “A Zara” e il trombettista Salvatore Camerada ad eseguire “Il silenzio”, in omaggio ai 150 anni dell’Unità d’Italia.

577 – L’Arena di Pola 25/08/11 Il dialogo tra esuli e rimasti: una necessità storica

Il dialogo tra esuli e rimasti: una necessità storica

L’articolo che segue è tratto dal libro Dall’Esilio al Ritorno –Cinquant’anni di attivitàdella Societàdi Studi Fiumani, 1960-2010, recentemente edito dalla stessa ed inviatomi dall’amico Marino Micich con preghiera di recensione. Il libro parla, con dovizia di documentazione, dei contatti che nel corso degli ultimi 50 anni ci sono stati tra chi ha lasciato e chi è rimasto a Fiume al fine di riallacciare il dialogo e favorire, per quanto possibile, il ritorno.

Ciò detto, anziché farne una recensione, ho preferito pubblicare integralmente il primo capitolo che spiega, in maniera mirabile, le ragioni a base della suddetta lunga attività. Sono le stesse ragioni che da lungo tempo, attraverso le pagine della nostra «Arena», io vado sostenendo e che sono state alla base anche della decisione di effettuare il nostro recente Raduno nazionale a Pola.

Le ragioni per riallacciare e rinforzare il dialogo tra esuli e rimasti sono essenzialmente due, essendo lo stesso:

– una “necessità storica” per il mantenimento dell’italianità di Istria, Fiume e Quarnaro;

– una “condicio sine qua non” per addivenire ad una memoria del passato che, ancorché non condivisa dalle parti, sia da queste, per quanto disgiunta, riconosciuta e rispettata.

Il non capirlo è un preconcetto che offende l’intelligenza di chi, ottusamente, non lo vuol proprio capire, danneggiando se stesso e noi tutti.

Silvio Mazzaroli

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La storia non è poi

la devastante ruspa che si dice.

Lascia sottopassaggi, cripte, buche

e nascondigli. C’è chi sopravvive.

Eugenio Montale

1.

Il dialogo tra fiumani esuli e fiumani rimasti fu promosso dalla Società di Studi Fiumani nel 1990, all’indomani della caduta del muro, quando era ancora in vita la Repubblica federativa jugoslava, e da allora si èsviluppato, pur tra difficoltà e incomprensioni soprattutto nella fase iniziale, senza soluzione di continuità producendo risultati sempre più significativi e di grande rilievo. Ben presto, come era del resto naturale, il dialogo si è allargato ai fiumani croati, alla attuale maggioranza croata della città

L’azione della nostra Società ha aperto una strada che è stata poi percorsa, in tempi e con modalità specifiche, dalle altre associazioni dell’esodo ed oggi si può dire che questa prospettiva è ormai condivisa e perseguita da quasi tutto il mondo dell’esodo.

Le motivazioni profonde che spinsero vent’anni fa la Societàdi Studi Fiumani, in armonia di intenti con il Libero Comune di Fiume in esilio, a percorrere la strada del dialogo sono valide per tutti gli esuli, fiumani, istriani e dalmati che siano. Su queste motivazioni intendo soffermarmi in questo contributo.

Il dialogo non fu visto da noi come una semplice opportunità da sfruttare per superare incomprensioni, rancori, giudizi unilaterali e operare ravvicinamenti anche affettivi (del resto sempre più sporadici, dato il trascorrere del tempo e l’avvento di generazioni che non hanno sofferto personalmente il trauma dell’esilio) in uno spirito, pur apprezzabile e condivisibile, di riconciliazione.

Il dialogo fu considerato da noi piuttosto come una necessità storica, le cui radici andavano individuate proprio in quell’evento unico costituito dall’esodo massiccio degli istriani, fiumani e dalmati di nazionalità italiana dalle terre in cui avevano vissuto per secoli insieme a popoli di altre nazionalità, a croati e sloveni, innanzi tutto, ma anche a tedeschi e ungheresi.

La convivenza tra nazionalità diverse aveva prodotto un continuo e fecondo scambio culturale, che – nonostante non fossero mancati, soprattutto nel XIX secolo e nei primi decenni del XX, momenti di tensione e conflitti anche aspri tra le nazionalità – non si era mai interrotto: mai la convivenza interetnica, documentata vistosamente dai frequenti matrimoni misti, era stata messa in pericolo, mai si era verificata l’espulsione brutale degli appartenenti ad una determinata nazionalità

Nella storia di queste terre l’evento dell’esodo costituisce quindi una cesura senza precedenti, un punto di svolta senza ritorno che è impossibile sottovalutare o addirittura ignorare.

2.

Per questo motivo gli esuli istriani, fiumani e dalmati dovettero rispondere immediatamente a una domanda cruciale, connessa alla ragione stessa della loro esistenza e della loro drammatica scelta: come salvaguardare l’identità culturale di carattere italiano delle loro terre, identità stravolta, e in certi casi pressoché cancellata, dall’esodo?

Per diversi anni a questa domanda gli esuli risposero alimentando la speranza del ritorno, opponendo la volontà testarda di non accettare come definitivo il fatto compiuto («volemo tornar!»): lo stravolgimento etnico e culturale delle terre adriatiche, perdute era ai loro occhi una parentesi storica, che prima o poi si sarebbe chiusa col ritorno alla situazione precedente.

Salvaguardare l’identitàitaliana delle terre perdute significava allora, innanzi tutto, non perdere la speranza del ritorno. Nel modo più nobile questa speranza prese la forma di appelli alle norme del diritto internazionale e al principio dell’autodecisione dei popoli, appelli e proteste in cui si esprimeva una sorta di fiducia ingenua se non nei principi astratti della giustizia, certamente negli organismi internazionali che di questi principi pretendevano di essere i garanti.

L’aspirazione al ritorno, indurita dalle sofferenze patite, veniva talvolta formulata nei termini aspri di una speranza di rivincita, anche se inevitabilmente vaghi e indefiniti, data la situazione politica interna e internazionale del secondo dopoguerra. Si trattava in ogni caso di una tenace difesa di principio che non poteva e nemmeno voleva soffermarsi sulle vie concrete di realizzazione dello sperato ritorno, che rifiutava di prendere atto fino in fondo di una realtà storica radicalmente mutata.

Un arroccamento testardo senza prospettive, quindi, e uno sterile rifiuto della realtà? Niente affatto.

Fu proprio questo «arroccamento» a rendere possibile la grande opera di salvaguardia della memoria compiuta dalle associazioni degli esuli.

Fu proprio questo preteso rifiuto della realtà a produrre il miracolo di salvare e custodire integralmente quell’altra realtà che la furia iconoclastica del totalitarismo mirava a cancellare del tutto, anche e soprattutto nella coscienza delle nuove generazioni, in Istria, a Fiume, in Dalmazia e nella stessa Italia.

All’arroccamento degli esuli corrispondeva peraltro un opposto e speculare arroccamento, quello dei nuovi padroni delle terre adriatiche perdute, che consideravano l’esodo della stragrande maggioranza della popolazione italiana autoctona o come qualcosa di non avvenuto, un non evento su cui stendere una cortina di silenzio, o un evento politicamente condannabile e comunque marginale, da ascrivere all’influenza persistente del fascismo e alle mene della «reazione».

Il regime comunista jugoslavo riscriveva la storia a partire dal 1945 come da un punto zero e, andando a ritroso, cancellava sistematicamente tutto ciòche non corrispondeva alla nuova visione ideologica proposta come verità«democratica e progressiva».

Per limitarci a Fiume, tutto fu brutalmente cancellato, a partire dai simboli che da secoli, sotto tutte le dominazioni politiche, ne avevano segnato l’identità vennero cancellati lo stemma municipale, l’aquila bicipite e il motto latino, la bandiera della città i Santi patroni, tutti i toponimi (non solo i pochi introdotti dal fascismo) e così via. Per di più, nel 1948, in forza di un decreto governativo jugoslavo, Fiume venne unita con la croata Sussak.

La nuova Rijeka non doveva avere nulla a che fare con la Fiume storica, che non era mai esistita: era esistita da sempre la croata Rijeka, dalla quale peraltro veniva rimosso anche tutto ciò che poteva disturbare la coerente riscrittura ideologica della sua storia, come, per esempio, la grande tradizione del cattolicesimo croato. Bisognava insomma non soltanto cancellare la storica presenza italiana nella città e ridurre la plurietnica e multiculturale Fiume a Rijeka, ma anche ridisegnare la croata Rijeka secondo i nuovi canoni marxisti-leninisti.

In questa situazione tra esuli e rimasti non poteva esserci che un muro. Agli occhi della maggior parte degli esuli gli italiani rimasti erano semplicemente complici di quanto avvenuto e del processo di snazionalizzazione in atto. E dai rimasti gli esuli venivano in genere classificati, in base alle categorie dell’ideologia, come fascisti e nostalgici, pericolosi irredentisti, e comunque strumenti, piùo meno consapevoli, della reazione capitalistica.

Certo un uso pacato della ragione avrebbe potuto portare, già prima della caduta del muro di Berlino e del crollo del socialismo reale, a considerazioni diverse, più problematiche. Nel mondo dell’esodo c’era chi si rendeva conto del carattere ambivalente, tragico appunto, dell’esodo: da un lato, un plebiscito di italianitàdi inestimabile valore, un impegno di conservazione e difesa della memoria storica che sarebbe stato impossibile nel contesto poliziesco del regime comunista; da un altro lato, però abbandono – forzato certo e inevitabile, ma non per questo meno reale – delle terre d’origine, ben presto ripopolate da gente nuova e sottoposte quindi ad un radicale stravolgimento della loro fisionomia etnica e storica, stravolgimento a cui sarebbe stato possibile opporre una efficace resistenza solo decidendo di restare.

Ma allora la presenza degli italiani rimasti non andava forse vista come un fatto comunque positivo? Non costituivano questi italiani rimasti, pur pesantemente condizionati sul piano ideologico, una difesa oggettiva dell’italianità autoctona? E non bisognava poi operare tra i rimasti una serie di distinzioni? Alcuni erano stati semplicemente costretti a rimanere, perché la loro domanda d’opzione era stata respinta; altri avevano condiviso anche le imposizioni più snazionalizzatrici, ma altri ancora si erano opposti in vario modo fino a pagare per questa opposizione un prezzo pesante sul piano politico e personale.

E più in generale: non era necessario cercare di comprendere le motivazioni dei rimasti e inquadrare le loro scelte, spesso drammatiche e contraddittorie, nel più ampio contesto storico costituito dalla tragedia del comunismo novecentesco?

Non sarebbe stato allora opportuno avvicinarsi in qualche modo ai rimasti, cercando con essi un’intesa, un terreno comune, che non poteva essere se non quello della difesa dell’identità culturale di carattere italiano dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia?

Compito questo tanto più indifferibile quanto più col passare degli anni, la speranza di un ritorno fisico e di una modifica dei confini si rivelava sempre piùillusoria. E, viceversa, nel mondo dei rimasti alcuni si rendevano conto, passata l’ubriacatura ideologica e man mano che l’utopia palingenetica dell’«uomo nuovo» si dissolveva di fronte alla realtà fallimentare del socialismo realizzato, del grande significato storico dell’esodo, comprendevano che solo l’esodo aveva consentito la conservazione – a vari livelli, da quello del vissuto quotidiano a quello storico, scientifico e museale – di quella identitàculturale di carattere italiano per la quale molti di essi si erano battuti e si battevano tra gravi difficoltà e a prezzo di rischi personali.

E non andava forse abbandonato lo stereotipo, frutto della terribile semplificazione prodotta dall’ideologia, che identificava l’esule con il reazionario, l’irredentista o il fascista, dimenticando che le prime vittime della «violenza rivoluzionaria» nel 1945 erano stati gli antifascisti italiani che si opponevano al disegno annessionistico jugoslavo, come gli autonomi fiumani, e che erano stati antifascisti dei CLN a promuovere in Italia le prime organizzazioni degli esuli?

Non sarebbe stato allora opportuno cercare un qualche collegamento col mondo degli esuli – che era poi anche il mondo dei parenti, dei compagni di scuola, di lavoro, degli amici di coloro che avevano scelto di rimanere – riconoscere il ruolo essenziale da essi svolto nella custodia delle città e dei luoghi della memoria e cercare quindi forme di collaborazione in vista dell’obbiettivo comune?

Queste considerazioni, tuttavia, non potevano avere a quel tempo la forza di tradursi in iniziative concrete. Nel mondo dell’esodo un dialogo con i rimasti, che si erano alleati agli «slavo-comunisti» snazionalizzatori, sarebbe stato considerato un «tradimento», un rinnegare il senso stesso dell’esodo.

E, specularmente, anche nel mondo dei rimasti un dialogo sarebbe stato considerato un pericoloso cedimento nei confronti dei presunti eredi del fascismo, portatori di istanze irredentistiche, o comunque di «reazionari», indifferenti alle motivazioni della lotta antifascista e ostili agli ideali della nuova società socialista in costruzione.

3.

Tutto cambiòcon il 1989, annus mirabilis: l’abbattimento del muro di Berlino e il crollo del socialismo reale mandò in frantumi i miti dell’ideologia, con conseguenze profonde non solo nella realtà politica e sociale, ma anche, e forse soprattutto, nel pensiero e nelle coscienze, conseguenze la cui portata èancora lungi dall’essere esaurita. Ma alcune cose essenziali, che nel mondo dei rimasti ma anche in quello dell’esodo erano state offuscate dai fumi dell’ideologia, cominciarono subito a venire in chiaro, ed una soprattutto: il nodo storico dell’esodo, il grande evento rimosso.

Cominciò infatti, a diventare evidente che una delle cause essenziali, se non la causa essenziale dell’esodo andava individuata nel carattere totalitario, e quindi repressivo e poliziesco, che accomunava il regime comunista jugoslavo a tutte le cosiddette democrazie popolari dell’est europeo.

Più precisamente: l’assunzione organica del nazionalismo slavo – che nel corso del XX secolo aveva assunto forme sempre più esclusiviste, corrispondenti, peraltro, a quelle del nazionalismo italiano, la cui virulenza era stata alimentata nel periodo tra le due guerre dal «fascismo di frontiera» – nella concezione totalitaria del comunismo leninista jugoslavo aveva prodotto quella miscela esplosiva di cui l’esodo era stata la piùtragica delle conseguenze.

Dopo la dissoluzione del socialismo reale e la crisi ormai irreversibile dell’ideologia comunista diventava finalmente possibile parlare apertamente dell’esodo: il regime della Repubblica federativa jugoslava non era mai stato quel «paradiso» da cui potevano voler fuggire solo fascisti e inguaribili reazionari.

Diventava possibile «sdoganare» definitivamente l’esodo, far riemergere dal silenzio gli orrori della repressione e delle foibe, liberandoli dalle etichette ideologiche di comodo: di essi era stato responsabile quel regime che ora non esisteva più e che quasi nessuno più rimpiangeva.

Il crollo del regime totalitario significò nei paesi ex comunisti la riconquista delle libertà fondamentali, a cominciare dalle libertà di pensiero, di ricerca e di stampa.

In un paese democratico come l’Italia segnò la fine del fascino esercitato dal marxismo soprattutto su importanti strati intellettuali e quindi un rinnovamento della ricerca storica, che portòallo sdoganamento di temi, come le «foibe» e appunto l’esodo, fino ad allora se non silenziati (perché gli storici italiani, soprattutto giuliani, se ne erano sempre occupati), comunque trattati con grande circospezione e relegati in un ambito locale senza mai suscitare l’interesse dell’opinione pubblica, dei giornali nazionali e dei mezzi di comunicazione di massa.

Con la fine del muro si posero pertanto le premesse oggettive per l’apertura di un dialogo autentico tra esuli e rimasti. Agli esuli si ripresentò la domanda cruciale sulla salvaguardia dell’identità culturale di carattere italiano delle terre perdute.

Per menzionare il caso di Fiume che qui ci interessa in modo particolare: come far rivivere, nelle nuove condizioni dell’attuale Croazia non più comunista ma democratica, l’identità culturale di carattere italiano di Fiume o, meglio, quel che era rimasto di questa identità

La risposta ci parve obbligata: la salvaguardia di questa identità doveva essere perseguita in collaborazione dalle due componenti fino ad allora divise ed estranee, dagli esuli e dai rimasti.

Era ed è infatti evidente, da un lato, che l’identità culturale di carattere italiano di Fiume non poteva e non può essere efficacemente difesa se non a Fiume, nei luoghi storici in cui essa si è formata nel corso dei secoli e dove continua ad esistere una comunitàitaliana autoctona. Questa comunità nel suo rapporto con la città e la sua antica anima, a cominciare dal dialetto, costituisce, di per se stessa, il testardo documento della permanenza di tale identità sul territorio.

Ed era ed è altresì evidente, da un altro lato, che non era e non è possibile parlare di identità culturale di carattere italiano di Fiume senza gli esuli fiumani, ossia senza quella parte (il 90% degli abitanti, pari ad almeno 38.000 persone) che nel 1945 e negli anni successivi, proprio per difendere questa identità, aveva intrapreso la dura strada dell’esodo in Italia e fuori d’Italia. Ecco perché il dialogo è una vera e propria necessità storica.

La salvaguardia dell’italianità storica di Fiume (e il discorso vale ovviamente per tutte le terre adriatiche perdute) non può essere affidata ad una sola delle due componenti: senza i rimasti essa manca del riferimento concreto alla terra e ai luoghi, non vive e non si alimenta nell’unico luogo in cui può continuare a vivere e ad alimentarsi e senza gli esuli non può riconoscere pienamente e autenticamente se stessa nella sua tragica e singolarissima storia.

La salvaguardia dell’identità culturale di carattere italiano di Fiume, infine, non è qualcosa che riguarda esclusivamente l’attuale minoranza italiana e il mondo degli esuli fiumani. Essa riguarda la storia di tutte le componenti della città e quindi anche, e in modo forse ancora più essenziale, i fiumani croati presenti da sempre in essa ed oggi maggioritari.

La stessa identità dell’attuale Rijeka non è infatti pensabile senza il recupero integrale della storia di Fiume, a cominciare dagli aspetti e dagli eventi per tanto tempo taciuti, censurati o marginalizzati.

La necessità di questo recupero è stata da tempo perfettamente colta dalla cultura croata democratica, che comprende come la salvaguardia della cultura della componente italiana di Fiume sia anche una responsabilità storica dei fiumani croati e, più in generale, della cultura croata.

Il dialogo tra fiumani esuli e fiumani rimasti è quindi un dialogo che deve investire tutti i fiumani, italiani o croati che siano, nel difficile lavoro di ricostruzione dell’identità e della storia cittadine, superando le lacerazioni e gli interessati silenzi del passato.

Che il dialogo così inteso sia una necessità storica non vuol dire ovviamente che esso sia in qualche modo garantito e inevitabile: il suo sviluppo dipende dalla volontà dei protagonisti, dalla loro apertura e soprattutto dalla convinzione che il presente e il futuro di una comunità dipendono dal suo rapporto con il passato.

È possibile certamente sopravvivere anche senza questo rapporto e nella storia non mancano «deserti» e «crateri», popoli dimenticati, civiltà scomparse che mai nessuno riuscirà più a far rivivere. Noi possiamo solo cercare di evitare che ciò accada ed operare con questo obiettivo.

4.

Queste convinzioni hanno animato, dal 1990 fino ad oggi, l’azione della Società di Studi Fiumani, le cui tappe e i cui risultati più significativi – alcuni di grandissimo rilievo, come la ricerca sulle vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni nel periodo 1939-1947 condotta in collaborazione con l’Istituto croato per la storia –sono documentati in questa pubblicazione.

Certamente molto resta ancora da fare, in particolare per consolidare i rapporti con le istituzioni culturali della minoranza italiana e della maggioranza croata. Per superare difficoltà e incomprensioni, soprattutto nel dialogo con la maggioranza croata, occorre, a mio parere, sgombrare innanzi tutto il campo dall’equivoco della memoria «condivisa». La memoria è per definizione soggettiva, parziale e unilaterale, e proprio in questo consiste la sua specificità e il suo valore documentale: una memoria «condivisa» non esiste e non può esistere.

Ma non esiste e non può esistere nemmeno una storia «condivisa»: la ricerca storica – se è come deve essere, veramente libera – è soggetta a precisazioni, correzioni e revisioni continue ed è sempre passibile di interpretazioni diverse ed anche contrapposte. Una «storia condivisa» può darsi solo come risultato di mediazioni politiche: avrà allora inevitabili connotazioni omissive se non deformanti e il suo valore scientifico sarà trascurabile.

L’obbiettivo che si può e si deve perseguire, invece, è che la ricerca storica sia condotta «a tutto campo» senza omissioni e censure di alcun tipo e a tal fine è necessario il confronto libero e aperto tra le diverse proposte interpretative e le diverse opinioni.

Questo confronto presuppone due condizioni che nella attuale situazione mi sembrano essere già in buona parte presenti.

Si tratta, in primo luogo, di essere d’accordo sulla necessità storica del dialogo e quindi di volere il confronto: questa volontà implica il rispetto delle posizioni dell’altro, il proposito di comprenderne le ragioni e l’uso pacato dell’argomentazione anche quando il dissenso può essere acuto. Il piano della comprensione oggettiva, fondata sulla ragione, il piano della scienza, va sempre distinto da quello dei sentimenti e delle passioni, da quello della vita.

I due piani sono ovviamente connessi, ma solo la loro distinzione, e quindi l’autonomia e il proposito di oggettività della storiografia, ci può garantire dall’irruzione dei mostri dell’irrazionale nella vita pratica. Come ha scritto Benedetto Croce, «bisogna guardare in faccia il passato o, fuori di metafora, ridurlo a problema mentale e risolverlo in una proposizione di verità che sarà l’ideale premessa per la nostra nuova azione e nuova vita. […] Tanto più energicamente si conosce un passato e tanto più energico sorge l’impeto di andare oltre di esso, progredendo».

Ed è necessario, in secondo luogo, abbandonare senza residui le pregiudiziali ideologiche che nel passato non solo hanno impedito il confronto, ma hanno posto limiti e barriere alla stessa indagine storica. L’abbandono di queste pregiudiziali si è già in buona parte verificato come conseguenza della crisi delle ideologie, ma occorre evitare che i vecchi vizi possano riemergere in forme nuove e dissimulate, una possibilità questa sempre presente sul terreno incandescente della storia contemporanea.

Obiettivo del dialogo è come si è detto, la ricostruzione di una storia delle vicende del confine orientale «a tutto campo», integrale. Non si tratta naturalmente di perseguire ingenuamente un’impossibile storia «oggettiva».

L’oggettività della ricerca storica è sempre e solo una pretesa da perseguire con profonda onestà intellettuale, un «come se», che si potrebbe enunciare nei termini della seconda formula dell’imperativo categorico di Kant: opera in modo da trattare la storia sempre come fine e mai come mezzo.

È questo criterio di «oggettività» a rendere possibile la ricomposizione di una storia non già condivisa, ma tendenzialmente integrale, senza vuoti e censure di nessun tipo, e perciò in questo senso, comune o di tutti.

Giovanni Stelli

578 – La Voce del Popolo 27/08/11 Zara, un «sepolcro di antichi splendori»

di Mario Schiavato

Una città piena di tesori che merita indubbiamente di essere visitata
Zara, un «sepolcro di antichi splendori»

Siamo arrivati a Zara in piena stagione turistica, una meta estiva questa per moltissimi visitatori che oggi, oltre ad andar ascoltare lo strano concerto provocato dalle onde marine che s’infrangono lungo quell’eccezionale organo costruito di recente lungo la riva, non esitano a percorrere le molte vie e viuzze onde poter immergersi in quel fascino antico che poche città della costa adriatica possono ancora offrire. Poi magari dalla lunga catena delle mura affacciarsi al porto con quel continuo, indefesso movimento di natanti piccoli, grandi, e soprattutto di traghetti che a tutte le ore del giorno si alternano in un viavai ininterrotto tra la città e i molti paesi e paesetti, d’inverno pressoché abbandonati, che si stendono sulle molte e pittoresche isole del suo vasto specchio di mare.

Il “Viaggio in Dalmazia” di Bahr

Dunque Zara: quasi per caso, in una delle viuzze del centro e tra gli altri vecchi libri offerti da un antiquario e accatastati dinanzi la porta del suo negozietto, abbiamo trovato un libro (senza copertina e acquistato per sole 20 kune): “Viaggio in Dalmazia”, apparso originariamente a Berlino nel 1909, opera dello scrittore e saggista di Linz Hermann Bahr. Si tratta di uno scritto in un certo modo politico per far comprendere le intricate vicende balcaniche e le loro lontane origini, ma soprattutto un viaggio diciamo sentimentale di un letterato certo d’eccezione, innamorato della Dalmazia che definisce paese del sole, una terra di fiaba e d’incanto.

«Con la pietra la parvenza della carta»

Ed ecco dunque – quale introduzione a questo nostro articolo – la città di Zara nella sua descrizione, logicamente una Zara dell’inizio del secolo scorso, quando il suo aspetto non era stato ancora devastato dalle numerosissime incursioni aeree di inglesi e americani durante il secondo conflitto mondiale che per fortuna hanno lasciati intatti molti dei suoi edifici storici. E dobbiamo sottolineare che anche la nostra prima impressione combacia esattamente con quella dell’autore. Infatti, scrive Bahr: “Qui sulle prime si vede soltanto una lunga parete bianca. Poco a poco ci si rende conto che questa lunga parete bianca starebbe a rappresentare delle case. Sono edifici, per così dire, di genere neutro. Non si riesce a immaginare come ci possano abitare degli uomini o delle donne (…) Hanno lo stile dei nostri edifici demaniali. Il suo fascino consiste nel creare con la pietra la parvenza della carta. Al primo sguardo si crede: di certo non è che un disegno! Meravigliosamente però, in questo disegno si può anche entrare. Ma può anche darsi che durante la notte, quando è partita l’ultima nave, queste case vengano portate via, ripiegate con cura e riposte in un magazzino come le quinte dopo una rappresentazione teatrale. Questa è la famosa Riva di Zara. Dietro c’è la vecchia città di Zara. Davanti è stata eretta una parete bianca austriaca. (…) Si può dunque dire che questa Riva si meriti la propria fama, essendo il simbolo della nostra amministrazione in Dalmazia. Che consiste nel lasciare il vecchio paese com’è, alzandogli però davanti una parete austriaca coperta da alti alberi, affinché non lo si possa vedere”.

Donato, un santo pratico del mondo

Comunque questa è soltanto la sua prima, forse un tantino falsata impressione. Perché poi l’autore si dilunga nella descrizione della parte interna. Ricorda: “il Museo Zaratino, ospitato nella vecchia chiesa di San Donato. Al suo interno hanno scoperto un’iscrizione che fa supporre che la chiesa un tempo fosse il tempio di Livia Augusta. Questo venne aggiustato nel IX secolo per poter accogliere le ossa di Santa Anastasia, portate qui da Bisanzio dal vescovo Donato, un santo pratico del mondo che messo in mezzo alle liti tra Carlo Magno e l’imperatore Niceforo riusciva a servire entrambi”.
Più avanti lo scrittore continua: “Da principio il Duomo di Zara era una basilica. Ne è rimasta solo una colonna. Infatti nel XIII secolo venne ricostruita completamente, in stile romanico. E poi venne un arcivescovo che si chiamava Valaresso ed era veneziano. Dunque non gli piaceva il romanico: non gli riusciva a scordare la sua patria, con il campanile, e così ne fece costruire uno. È stato ultimato soltanto ai giorni nostri, secondo gli schizzi dell’inglese Jackson. (…) Qui sulla piazza si erge una colonna, evidentemente il resto di un tempio romano. Ne pendono delle catene, perché qui ai tempi di Venezia venivano messi alla berlina i malfattori, era la colonna infame. Infatti, la forte epoca veneziana non sopportava che una cosa del passato se ne stesse lì inutilizzata nel presente”.

«Una facciata tessuta con i raggi del sole»

Poi il Bahr passa a descrivere in modo veramente eccezionale il Duomo: “La facciata è incomparabile. Come tessuta con i raggi del sole. Tutto ciò che è gotico tende sempre a trascendere l’uomo, che si sente colpevole. Ma qui gode ancora di se stesso, inebriato, e con le sue mani loda la vita”. Finisce la sua visita a Zara annotando: “Rimango in coperta finché passiamo Zara. Eccola, indicibilmente triste. Un sepolcro di antichi splendori. Ne rimangono solo rovine. E se fossi nato qua e sedessi tra dei vecchi libri e leggessi della perduta grandezza dei tempi passati, e avessi il cuore colmo delle gesta dei miei avi e poi mi guardassi attorno e vedessi la miseria e le rovine che mi circondano? È una fortuna che la gente di qui non impari a leggere e a scrivere. Così non sanno nulla del loro passato. Altrimenti già da molto tempo la vergogna e l’ira avrebbero bandito con la frusta il loro senso di sotto-missione”.

L’acquedotto di Traiano

Certo quelle del Bahr sono affermazioni molto coraggiose anche per i suoi tempi. Ma lasciamo l’opera dello scrittore austriaco per inoltrarci molto sommariamente nella millenaria storia di questa città. Già nel IX secolo a.C. venne abitata dalle stirpi antiche dei Liburni. Fonti greche la nominano (Jadasinos) già nel IV secolo mentre nel I, sempre a.C., diventa municipium e colonia romana (Jadera). Le sue navi (naves Jadertinorum) ebbero un ruolo molto importante nella guerra tra Cesare e Pompeo. Quindi, sotto il regno di Augusto, l’antica città venne circondata da mura con tre porte: due marittime e una di terraferma. A quei tempi aveva il foro (95×45,5 metri) con gli attigui edifici pubblici porticati nonché un particolare mercato (emporium).
Durante il regno di Traiano venne costruito l’acquedotto che portava l’acqua da Vrana lontana ben 40 chilometri. Dopo il tramonto dell’Impero Romano d’Occidente, nel 615 Zara diventò sede del capitanato imperiale bizantino per passare quindi per un breve periodo, all’inizio del IX secolo, sotto la dominazione francese. Però grazie all’indefesso lavoro degli ambasciatori delle città dalmate (presso la corte di Carlo Magno costoro erano capitanati appunto dal vescovo Donato) la città ritornò sotto l’amministrazione bizantina finché nel X e in modo particolare nell’XI secolo venne dominata dai re croati. Infatti nel 1050 Zara di sua iniziativa si sottomise loro finché nel 1105 riconobbe Colomanno, primo re croato-ungherese.

L’accanimento dei bombardieri alleati

In seguito divenne libero comune finché venne occupata dai Veneziani (1202) che, immediatamente, ne fecero una roccaforte contro i turchi. Comunque sotto Venezia Zara conobbe diversi tentativi insurrezionali ma infine nel 1409 fu venduta dal re d’Ungheria Ladislao alla Serenissima. Passata all’Austria con il trattato di Campoformio, fu quindi occupata dalle forze napoleoniche finché nel 1813 ritornò agli Absburgo. Partecipò ai moti risorgimentali e con il trattato di Rapallo del 1920 fu assegnata all’Italia. Il resto delle sue vicende storiche le conosciamo, soprattutto quel già accennato accanirsi dei bombardamenti alleati su questa città (per ben 72 volte!) che, dal punto di vista militare, non aveva davvero una grande importanza. C’è un’ipotesi, del resto non confermata, che quell’accanirsi sia stato voluto dal maresciallo Tito per il fatto che la città era allora una “provincia italiana fascista”.
Comunque bisogna sottolineare che nonostante le rovine e nonostante i moltissimi edifici senza uno stile costruiti durante il periodo socialista, la città ha conservato un suo fascino particolare: le mura con le loro torri e le porte lungo la riva, l’assetto delle vie risalente all’epoca romana con il decumano, la famosa Calle Larga (così chiamata ancora oggi), cattedrali, chiese e conventi, il Vecchio Arsenale, nonché vari importanti musei e l’Archivio Storico, tra i più ricchi della Croazia e risalente al 1624.

I monumenti più importanti

Cercheremo ora in breve di ricordare i monumenti più importanti. Logicamente, incominceremo dal campanile della cattedrale di Santa Anastasia che sovrasta la città: iniziato nel 1452, si fermò al primo piano finché appena alla fine del XIX secolo venne terminato su disegno dell’architetto Jackson. La cattedrale invece venne costruita nel XIII secolo e intitolata alla santa patrona della città, quando il vescovo Donato ne portò le reliquie dalla lontana Costantinopoli, dono dell’allora imperatore bizantino.

Altra chiesa importante è quella di Santa Maria, adiacente al monastero delle Benedettine, fondato dalla vedova Cicca parente del re Petar Krešimir IV. In stile preromanico, più volte rifatta, ha l’interno in stile barocco. Nel monastero viene custodita una preziosa mostra d’arte sacra arrivata fino ai nostri giorni grazie al fatto che durante la Seconda guerra mondiale venne sepolta sotto il campanile.
La chiesa di San Donato è certamente il monumento più interessante del Primo Medioevo, già ricordato da Porfirogenito. Venne appunto fatta costruire dal vescovo Donato a forma tondeggiante sui resti del Foro Romano. Per la sua costruzione vennero impiegati molti dei materiali provenienti dagli edifici che circondavano la costruzione romana.
Altra chiesa importante è quella di San Simeone risalente al XIII secolo, nota soprattutto per l’Arca del santo. Quest’Arca (non si è potuta visitare perché la chiesa è sempre chiusa!) venne regalata da Jelisava, moglie del re ungaro-croato Ludovico I e figlia del bano bosniaco Stjepan Kotromanić. Venne costruita nella bottega di Francesco di Antonio di Sesta da Milano con l’aiuto di vari orafi croati. Per la sua realizzazione vennero impiegati 250 chilogrammi d’argento. Con rilievi tratti dalle leggende del santo, riporta anche scene storiche del tempo ed è sorretta da angeli fusi col bronzo proveniente da cannoni saraceni.

La chiesa di Sant’Elia venne donata dai Veneziani agli zaratini di fede ortodossa mentre quella di San Crisogono risalente al 986 e oggi in fase di completo restauro sia interno che esterno, venne costruita dai frati benedettini di Monte Cassino, poi rifatta e inaugurata nel 1175 in stile romanico (nel 1403 qui venne incoronato il re ungaro-croato Ladislav). Da non dimenticare ancora la chiesa della Madonna della Salute del 1582 e quella di San Francesco annessa al chiostro inaugurata nel 1280 in stile gotico. (All’interno di questa chiesa c’è una lapide risalente al 1358 che ricorda la pace qui stipulata e in base alla quale Venezia rununciava alla Dalmazia.) Tutte queste chiese al loro interno custodiscono opere d’arte e pittoriche di grande valore che qui sarebbe troppo lungo ricordare.
Molti gli edifici in vari stili delle ricche famiglie zaratine pervenuti ai nostri giorni, danneggiati dai bombardamenti ma in buona parte ricostruiti come quelli dei Grisogono-Vovo, Patrizio, Nassis, Ghirardini-Marchi, Califfi, Bonaldi, Fanfoni… Oltre alla Porta di Terra del 1543 su disegno del Michele Sammicheli, da ricordare anche le Porte di Mare e la Torre pentagonale dovuta allo Sforza-Pallavicini, nonché l’edificio della Guardia cittadina e la notevole Loggia della Gran Guardia (1562, attribuita al figlio del Sammicheli, Giangirolamo) nella cosiddetta Piazza dei Signori e le varie vere delle cisterne con il Leone di San Marco, cisterne che, come quella Imperiale (rinnovata nel 1556), servivano per imbarcare l’acqua potabile sulle navi che si fermavano nel porto.

Da tutto questo è evidente che Zara con tutti i suoi tesori non è soltanto una lunga parete bianca, né una quinta da smontare al calar della notte e da riporre in un magazzino come la descrive Harmann Bahr nel suo “Viaggio in Dalmazia”, ma davvero “un sepolcro di antichi splendori”, una città piena di tesori che merita di essere visitata.

579 – L’Arena di Pola 25/08/11 Forsi qualcossa comincia a cambiar

Forsi qualcossa comincia a cambiar

El 55° Raduno dei Polesani, el primo che se ga tignù a Pola, xe stado un grande successo! Penso che i fortunadi che ga podù partecipar senz’altro i lo confermerà e i altri, meno fortunadi, i gavarà zà sentido i amici e leto le notizie sui giornai. Per questo mi qua no go intenzion de rifar la cronaca del raduno, ma voio invesse contarve de un fato che me xe capità che, a mio parer, xe indicativo de come che cambia i tempi.

Domenica 19 giugno se ga chiuso el raduno con la messa in duomo, oficiada dal vescovo Ravignani e da don Staver. Una cerimonia ’sai comovente, la cesa iera piena de polesani, esuli e rimasti, e, ala fine, tuti insieme, gavemo cantà el «Va pensiero», no ve digo l’emozion! Dopo la messa e la fotografie de grupo davanti del tempio de Augusto, semo andai al Cimitero dela Marina a posar una corona e discoverser una targa in ricordo dei marinai del caciatorpedinier «Rossarol», morti nel 1918, per el scopio de una mina al largo de Lisgnan. Anche qua cerimonia comovente, con l’intervento dele autorità civili e religiose, benedission dela targa, discorsi e interviste ala stampa de lingua italiana e croata. Una roba che solo qualche ano fa no pareva possibile.

Indiferente, dopo le cerimonie, saludadi i amici, mi e Furio gavemo pensà de andar a far un giro nei dintorni de Pola. Gavemo un caro amico che el sta a Trieste ma el ga ancora la casa de famiglia a Bagnole, una bela casa, de quele in piera, come che se le fasseva una volta, con la vigna de drio e la pergola davanti. ’Sto sior, come che disevo, el sta a Trieste ma, anche se el xe ben avanti coi ani, apena che’l pol, el torna a Bagnole, el cura el giardin e la vigna e el fa un bon vin!

El iera anche lui al raduno e el ne gaveva invità de andarlo a trovar. Cussì gavemo deciso de passar de lui per far una ciacolada e bever qualche bicer insieme. Xe una carissima persona e, dato che el ga un pochi de ani de più, tra l’altro portadi benissimo, el sa tante robe dela Pola de una volta, dela guera, del dopoguera, dell’esodo che xe un piaser ’scoltarlo.

Iera però un poco presto per disturbar e alora semo andai a far un giro per Bagnole, dove nei ultimi tempi i ga costruido tantissimo. Per prima roba semo andai dove che una volta iera la fabrica de sardele in scatola. Mi andavo là qualche volta de muleto con mio papà e me ricordo che se sentiva una spussa de pesse marso fin de lontan, perché i mandava i scarighi dela fabrica in mar. Me ricordo anche che soto al molo se vedeva dei branzini enormi e gavevimo provà a pescarli ma no’i magnava perché i iera sazi dei resti dele sardele che scarigava la fabrica. La fabrica no xe più zà de ani e là i ga fato un grande albergo, come quei che xe de noi a Jesolo o a Grado. El mar però no’l xe bel e i clienti i fa el bagno in una grande piscina.

Dopo, semo andai a veder un altro posto, dove che andavo de picio, una baieta ciamada «Indie», e no go mai savudo el perché de ’sto nome. Anche là xe un albergo e iera gente che fasseva el bagno in mar. Gavemo parchegià la machina e semo andai zò a far qualche fotografia.

Ierimo là che fotografavimo quando gavemo visto ’rivar con aria minaciosa due tochi de mati, cavei rasadi, braghete curte e maieta bianca. «Chi sé voi e cossa fé qua? Perché fotografé?» me ga domandà uno in croato. «Semo Polesani – ghe go risposto mi –, fotografemo la spiagia e el mar». «No xe vero – el me ga dito ancora quel, a muso duro –, diseme ben cossa che se vignudi voi a far qua e cossa fotografé?». «Semo vignudi a veder i posti de mar e li fotografemo – ghe go ripetù mi –: xe proibido?».

Intanto go pensà: «noi se iludemo che questi i cambi ma invesse no’i cambia mai, perche i xe violenti per natura». «No, no xe proibido – me ga risposto el mato – ma mi no ve credo – el ga continuà, sempre più minacioso – perche se vestidi tropo ben per andar in spiagia! Ripeto ancora una volta: chi sé e cossa se vignudi a far qua?».

«Semo vestidi cussì perché stamatina ierimo a una cerimonia – ghe go dito mi, sercando de frenar la rabia e mantignir la calma –, semo passai de qua per veder i posti e fotografarli». El mato el ghe ga pensà un momento e po’ el me ga domandà: «Ma vi ste ezuli? Ma voi se esuli?».

«Sì, semo esuli», ghe go risposto. Ala mia risposta, el mato ga cambià completamente espression, el xe diventà gentile e el se ga scusà: «savè – el ga dito –, noi dovemo star atenti, far la guardia, qua vien gente de tuti i tipi, pedofili…». A sentir ’sta parola, Furio, che no’l capissi croato e che no’l gaveva seguì tuto el discorso, el xe saltà su: «Come pedofili? I ne ga ciapà per pedofili?». «Calma, Furio – ghe go dito –, xe chiarido l’equivoco, meo cussì, ris’ciavimo grosso». I due mati se ga scusà ancora, i ga dito che podemo fotografar quanto che volemo e i xe andai via. Ma noi ormai no gavevimo più voia, i ne gaveva rovinà l’atmosfera!

Più tardi, a fredo, ripensando a questo episodio, go fato due considerazioni,

La prima xe che druzi xe ancora sempre druzi! Che i modi de far de chi che ga anche solo un minimo de autorità xe ancora quei che purtropo conossemo ben. I ga ancora un bel percorso de far sula strada dela democrazia!

La seconda xe che qualche ano fa, disendo che ierimo esuli, ris’ciavimo de ciaparle.

’Stavolta, dir che semo esuli ne ga salvà! Forsi qualcossa comincia a cambiar!

Roberto Stanich

580 – La Voce del Popolo 02/09/11 Trieste, dialogo e convivenza, un volume curato da Stelio Spadaro racconta gli italiani dell’Adriatico orientale

Un volume curato da Stelio Spadaro racconta gli Italiani dell’Adriatico orientale
Trieste, dialogo e convivenza

TRIESTE – L’estate porta consiglio e produce idee. Almeno è così per il prof. Stelio Spadaro, che si appresta a tirare le fila, chiudere e mandare in stampa un altro volume della miniserie realizzata con la LEG di Gorizia. Protagonisti, ancora una volta, gli Italiani dell’Adriatico orientale attraverso la storia di pensiero. Coinvolti diversi autori impegnati a ricostruire esperienze politiche-civili-culturali in una logica più articolata e completa che si discosti da semplicistiche considerazioni che riducono il tutto alle contrapposizione tra nazionalismi.

“La società civile dell’Adriatico orientale – afferma il prof. Spadaro –, ha prodotto dinamiche oltremodo interessanti, supportate spesso da idee originali che hanno contato anche a livello europeo in un’interazione che ha espresso il meglio dell’intellighenzia delle nostre contrade”.

Si tratta di tematiche spesso studiate marginalmente, condizionate dall’interesse predominante nei confronti dei fatti delle due guerre che hanno insanguinato il Novecento, distogliendo l’attenzione da tutto il resto. “Ma oggi che l’Europa riconquista questi spazi di dibattito – afferma Spadaro – diventa un bisogno capire le dinamiche che hanno portato alla nascita di movimenti legati ai grandi partiti dell’epoca, mi riferisco ai popolari, repubblicani e socialisti; ma induce nello stesso tempo a rendere merito a situazioni di nicchia, ad esempio quella degli autonomisti fiumani o riformisti dalmati, in grado di esprimere specificità di ampio interesse nella realtà odierna”.
Come spesso succede, il passato si rinsalda al presente in un processo di acquisizione di conoscenza che porta a galla, magari a distanza di decenni o secoli, originali soluzioni in territori di particolare conformazione politica e sociale. Tutto questo in una decina di contributi che propongono tematiche poco o per nulla presenti nelle indagini degli specialisti.

“Da dibattito con gli autori, propedeutico alla realizzazione del volume – racconta il curatore –, è stato focalizzato il bisogno di far emergere la cultura europea delle nostre genti di cui spesso si dimentica l’esistenza e l’incisività che questa ha avuto sulle scelte di singoli gruppi e abitanti del territorio”.

La prefazione sarà curata dallo stesso Spadaro e da Lorenzo Nuovo, con il quale ha affrontato, in modo specifico, proprio tale tema nella miniserie, ovvero L’europeismo nella cultura giuliana, con un’antologia che va dal 1906-1959. Per scoprire che cosa?

“Le nostre sono state terre contese, dilaniate dai conflitti nazionali e dallo scontro fra totalitarismi. Sappiamo che è stato così. Eppure – come scrive Fabio Todero nella prefazione del libro che ho realizzato con Nuovo –, anche in quei tempi bui vi fu chi non rinunciò alla stella polare del proprio cammino politico: a Trieste operò Eugenio Colorni, tra i promotori del programma federalista europeo, mentre Gabriele Foschiatti, nelle giornate oscure del Patto di Monaco, poteva esaltare ancora il ruolo di Mazzini, il suo concetto di nazionalità in contrapposizione al nazionalismo, di umanità costituita dalle patrie affratellate. Sugli stessi concetti ripetutamente insistette anche Giovanni Paladin, repubblicano e poi, nel dopoguerra, azionista”.

Per decenni Trieste è stata avvolta nelle dense nebbie di un “passato che non passava”. L’ombra lunga della Seconda guerra mondiale ha filtrato quasi ossessivamente la sua memoria collettiva. Oggi invece?

“Oggi diversi segnali fanno pensare che quel passato, a Trieste, sia davvero passato. Il collasso del sistema comunista, la dissoluzione della Jugoslavia, l’allargamento a Est dell’Unione europea, aprono uno scenario rinnovato e pongono il Paese davanti a un’altra questione di Trieste: perché il problema, a più di mezzo secolo dal buco nero del conflitto mondiale, si può trasformare in risorsa per il nostro presente. Nel volume sulla Questione di Trieste lo raccontano i testi – composti tra il 1943 e il 1955 da alcuni fra i più celebri intellettuali giuliani di lingua italiana (tra cui spiccano le voci di Giani Stuparich, Carlo Schiffrer, Biagio Marin, Umberto Saba, Bruno Pincherle) – i quali testimoniano l’esistenza di un patrimonio di valori civili più che mai attuale”.

Quale l’auspicio, anche in considerazione delle riflessioni che la città ha fatto dopo il concerto del 13 luglio 2010 e a pochi giorni dall’incontro a Pola dei due presidenti Napolitano e Josipović?

“La proficua collaborazione tra popoli vicini, il dialogo e la convivenza pacifica tra le nazioni, il patriottismo rivendicato come veicolo di una consapevole cittadinanza democratica e come base per l’appartenenza più ampia che lega all’Europa: sono questi i puntelli sui quali Trieste, con fatica, ma con abnegazione, ha costruito negli anni il riconoscimento reciproco tra le sue diverse componenti etniche e le sue tante anime. Ma sono anche i fondamenti del vivere collettivo irrinunciabili nell’Europa di oggi e, ancor più, in quella di domani. E questo vale per l’intera regione dell’Adriatico orientale”.

Rosanna Turcinovich Giuricin

581 – L’Arena di Pola 25/08/11 Lettere in Redazione – Missione compiuta

Lettere in Redazione

Risponde il Direttore Silvio Mazzaroli

Missione compiuta

È passato un mese dal primo raduno nazionale degli esuli polesani nella propria città, ed io sto ancora meditando, con somma soddisfazione, sull’ottimo esito dell’evento, confermato dai commenti felici dei presenti durante le quattro giornate, ma sentiti anche dopo in tante conversazioni telefoniche o incontri casuali a Pola o a Trieste.

Mi congratulo con coloro che tanto si sono prodigati perché questo raduno avesse luogo qui, nel posto giusto, nella città dell’Arena, A CASA, e credo di non essere l’unica a pensare con profonda gratitudine alla statura morale del generale Silvio Mazzaroli e del dott. Argeo Benco, per aver raggiunto questi risultati insperati.

In tutti questi anni, quando cullavo la speranza di un raduno a Pola, mi mettevo sempre nei panni degli esuli, immaginando i loro desideri. Posso dire oggi che questa ventata di polesanità è stata un’emozione importante, inaspettata, anche per noi rimasti.

E ci ha fatto piacere vedere l’impegno dei responsabili della Comunità i proff. Fabrizio Radin, Claudia Millotti e Silvana Wruss, perché tutto funzionasse bene.

Il mio pensiero corre anche a quell’invito del dott. Aldo Clemente alla Rassegna della Venezia Giulia a Brescia, vent’anni fa (…«ci sono anche i nostri fratelli rimasti…»), dove ci fu il primissimo incontro delle nostre anime (esuli-rimasti), e dove conobbi Lino Vivoda, allora sindaco del Libero Comune di Pola in esilio.

Caro Lino, ti sono grata, perché da allora e in tutti questi anni, hai saputo affrontare ogni ostacolo con coraggio, con una buona dose di pazienza e sempre con il sorriso. Hai addirittura fondato «Istria Europa» allo scopo di avvicinare sempre più esuli e rimasti. Oggi chiudi, potrebbe essere un giorno triste.

Ma vediamolo così Missione compiuta! Rallegramenti, Lino.

Cari saluti a tutti, a domani.

Olga Milotti

Pola,17 agosto 2011

Carissima Olga, questa sua lettera, giuntaci alla vigilia della cerimonia in ricordo delle vittime innocenti di Vergarolla, è per noi del Libero Comune di Pola in Esilio motivo di grande soddisfazione, perché evidenzia un successo che è stato di tanti per la continuità di un impegno sviluppatosi nell’arco di un protratto periodo di tempo. Un successo che è stato nostro e vostro allo stesso tempo; un successo che rappresenta certamente qualcosa di più che non una buona base di partenza ma che sarebbe sbagliato considerare come un punto d’arrivo; un successo, insomma, che abbisogna ancora di essere coltivato per farci crescere ulteriormente.

582 – Il Piccolo 28/08/11 “Dentro il labirinto” di Pahor racconta Trieste dopo il ’45

“Dentro il labirinto” di Pahor racconta Trieste dopo il ’45

Il 16 settembre Fazi pubblica il secondo romanzo della trilogia che lo scrittore ha dedicato al suo ritorno nella città natale dopo l’esperienza del lager

di Laura Strano

Continua il viaggio, per i lettori italiani, alla scoperta dei capolavori di Boris Pahor. Lo scrittore triestino di lingua slovena, che ha compiuto 98 anni, pubblica con Fazi Editore il romanzio “Dentro il labirinto”, un volumone di oltre 600 pagine tradotto da Martina Clerici. Arriverà nelle librerie il 16 settembre. La seconda parte di quella che i critici francesi hanno chiamato la “trilogia triestina”, aperta da “Primavera difficile”, si annuncia come un libro intenso e drammatico che racconta un capitolo sconosciuto della storia d’Italia. Insieme al terzo romanzo, “Oscuramento”, esplora gli anni terribili vissuti dall’Europa e da Trieste tra il 1943 e il 1949. Dopo la drammatica esperienza del lager (raccontata in “Necropoli”) e la degenza nel sanatorio dove l’amore per l’infermiera francese Arlette gli ha fatto ritrovare il gusto per la vita (in “Primavera difficile”(, Radko Suban, alter ego dell’autore, nel romanzo “Dentro il labirinto” ritorna a Trieste. Ma fatica a riconoscere a sua città natale. La comunità slovena, più straziata che mai, vive dall’altra parte della frontiera, in quella Iugoslavia di recente costituzione che un tempo passava ancora per incarnare l’anima della resistenza a tutti i fascismi e che già versa nella peggior caricatura totalitaria. Per uscire da un labirinto ostile, Radko dovrà ritrovare la fiducia nell’individuo e nella società, dovrà di nuovo imparare a vedere nella notte. Boris Pahor è nato nel 1913 a Trieste dove vive. Dopo la laurea a Padova ha insegnato Lettere italiane e slovene nella città giuliana. Durante la seconda guerra mondiale ha collaborato con la resistenza antifascista slovena ed è stato deportato nei campi di concentramento nazisti, esperienza che lo ha segnato fortemente. I suoi libri, scritti in sloveno, sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco, spagnolo e perfino in esperanto. Segnalato più volte all’Accademia di Svezia che assegna il Nobel per la letteratura, insignito nel 1992 del Premio Prešeren, il massimo riconoscimento sloveno, per la sua attività letteraria, già nominato in Francia Officier de l’Ordre des Arts e des Lettres dal ministero della Cultura, nel 2007 Pahor ha ricevuto la Legion d’Onore da parte del presidente della Repubblica francese. In italiano, oltre a “Necropoli” (Fazi Editore 2008. Premio Viareggio, Premio Napoli, Premio Latisana per il Nordest e “Libro dell’anno” di Fahreneit, sono stati pubblicati “Il rogo nel porto”, “La villa sul lago”, “Il petalo giallo”, “Primavera difficile”, “Tre volte no”, “Piazza Oberdan” e “Qui è proibito parlare”.

583 – Il Messaggero 01/09/11 Mar Adriatico – Matvejevic: L’antico che genera isole

Predrag Matvejevic leggerà domani ad Ancona durante il «Festival del Mediterraneo» questo suo scritto inedito dedicato all’Adriatico

Matvejevic – L’antico che genera isole

«Adriatico Mediterraneo Festival» è una rassegna (aperta alle Istituzioni internazionali e territoriali) che si svolge in Italia ad Ancona e in altri Paesi del Mediterraneo. E nella bella città marchigiana si sono affollati, dal 20 agosto, oltre ducento artisti e uomini di cultura fra internazionali e naziona­li. Molti i progetti inediti e le mostre. Fra i presenti: lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, premiato per le sue lotte contro il razzismo; il regista e scrittore israeliano Etgar Keret ; Magdy El Shafee, il disegnatore egiziano censurato per l’opera «Metro» che ha presentato la mostra inedita «Egitto senza Piramidi»; la rock-star Omar Souleyman, dalla Siria; Dragutin Hedl (Balcani); Dragan Velikic (Serbia); Ennio Re-mondino; il magistrato Raffaele Cantone; Francesco Carof i­glio; Eric Salerno; Charlotte Rampling (domani al Teatro delle Muse con l’attore greco Polydoros Vogiatzis); lo scritto­re Predrag Matvejevic (Bosnia/Croazia), il cui intervento, pure previsto per domani e dedicato alla storia e alle bellezze del mare Adriatico, pubblichiamo in anteprima su questa pagina.

di PREDRAG MATVEJEVIC

NON è solo con gli occhi nostri che guardiamo e scopriamo il mare. Lo vedia­mo anche co­me lo hanno guardato gli altri, com’è nelle immagi­ni e nei rac­conti che ci

hanno lasciato. Veniamo a co­noscerlo e lo riconosciamo al tempo stesso. Conosciamo an­che i mari che non vedremo mai, nei quali mai ci immerge­remo. Le descrizioni che seguo­no non sono solo mie. Alcune sono ispirate dal libro di Ivo Marinovic e Baldo Šutic, dedi­cato ai Croati del litorale di Macarsca e della Bassa Naren­ta, trasferiti in Italia.

Non so in che modo guarda­vano al mare Adriatico quelli che giunsero per primi alle sue sponde: che ne sapevano degli altri mari? Sei secoli prima della nascita di Cristo, Ecateo di Mileto soggiornò sul versan­te orientale e su quello occiden­tale. Il «padre della geografia» (così lo chiamano sempre) fece menzione della città di Adria, dalla quale il mare Adriatico avrebbe preso il suo primo nome. I Greci e i Romani lo chiamavano talvolta mare, ta­laltra golfo: Adriatike thalassa o Adriatikos kolpos o jonios kolpos, Hadriaticum Mare o Sinus Hadriaticus. Questo dualismo ne accompagnerà il destino.

Hadria (Atria, Adria) è an­notata nelle prime carte geogra­fiche, sulla sesta tabula di Tolo­meo. Si trovava a sud del­l’odierna Venezia, a nord di Ravenna. Né Eratostene né Strabone, che la menzionano, hanno chiarito le ragioni per cui fosse così importante da estendere il suo nome all’intero mare. Il mare celò questo mistero. L’antica Adria non esiste più da tempo, come non c’è più la vecchia Aquileia, detta una volta «seconda Ro­ma”. Né l’una né l’altra hanno sufficientemente attirato. I pa­leologi. Aquileia è stata estro­messa dalla storia. Gli elemen­ti hanno separato Adria dal mare. I fiumi spostano le spon­de: foce del Brenta e dell’Adi­ge, del Po di Levante e di Maistra, della Pila e di Tolle, di Goro e di Gnocca… Il fango invade le città di mare. Non hanno dappertutto un destino favorevole. Sulla sponda orien­tale dell’Adriatico sono preci­pitate in mare la illirica Cissa (Kissa) sull’isola di Pago, parti della vecchia Issa su quella di Lissa, le mura di Risan, la greca Rhison, nelle bocche di Cattaro. Epidauro fu distrutta dai barbari. Le tracce di Salo­na sono state sepolte dall’incuria. Su queste rive si incrocia­vano le vie del sale e del grano, quel-le dell’olio e del vino; le spezie e la seta venivano da Levante e dal Sud, l’ambra e lo stagno da Ponente e dal Nord. Un mare come questo suscitò l’invidia del mondo.

Erodoto conobbe Adrias e ne attribuì la scoperta ai Focei. L’Adriatico antico fu più gran­de del presente. Secondo il Nuovo Testamento questo ma­re si stendeva fino a Creta verso oriente, fino alla Sicilia verso occidente, bagnava le co­ste della Tunisia, giungeva fi­no a Malta dove, a leggere gli Atti degli Apostoli (XXVII), San Paolo trovò rifugio dopo il naufragio nel suo itinerario apostolico dalla Terra Santa alla Città Eterna. Il mare Jonio era allora una parte dell’Adria­tico, un suo golfo. Non sappia­mo se l’imperatore Adriano abbia ricevuto il nome da

Adria o dal mare Adriatico. Ancona ne era allora il porto principale, con il suo famoso molo sotto il monte Conero che poteva stare alla pari degli antichi moli di Alessandria e del Pireo.

Il mare Adriatico veniva inoltre chiamato Superiore: Mare Superum. Il Tirreno era quello inferiore: Mare Infe­rum. Inferiore qual-che volta era detto anche lo Jonio. Forse é da quell’epoca che si é conser­vata sull’Adriatico una certa idea di predominio o grandez­za che non é estranea agli abi­tanti delle sue sponde. L’imma­gine di un mare superiore e grandioso, confermata dalla Sacra Scrittura e dalla fama di Adriano, dovrà poi confrontar­si con quella più modesta e angusta che gli hanno assegna­to la storia e la sorte.

Non sappiamo quali imma­gini del mare avessero coloro che per primi si affacciarono all’Adriatico. Certo ne erano ammirati gli antichi Greci e i Romani, i loro predecessori e successori. Plinio il Vecchio annotò, oltre al resto, le anti­che denominazioni di molte città: da Trieste (Tergeste) fino a Otranto sul versante occiden­tale, da Zara (Iader) fino a Dulcigno (Olcinium) su quello orientale. Lo attirò la «costa illirica con più di mille isole, il basso fondale e le dolci corren­ti che penetrano fra le strette insenature». Alcune di queste isole hanno ricevuto nomi be­nedetti: Kornati o Incoronate (che l’etimologli a popolare ha collegato con corona o con cuo­re), Elafiti o Isole dei Cervi, Mljet (Meleda) che contiene la radice di miele (melite nessos). La supposizione che Ulisse le abbia perlustrate prima delle Sporadi e delle Cicladi, o addi­rittura quella che l’autore della Tempesta e del Mercante d. Venezia abbia soggiornato nel­l’Illiria, sono prova dellafacol­tà di im-maginazione di cui le divinità hanno dotato gli anti­chi abitatori di queste rive e i loro discendenti.

Sul versante occidentale, che é più piano, ci sono meno isole. Le Tremiti hanno più volte cambiato nome: un tem­po si chiamavano isole di Dio­mede, ora sono San Nicola, San Domino, Capraia, non­ché, sperduta in mezzo al ma­re, Pianosa praticamente ano­nima. Dall’altra parte dell’Ap­pennino, a nord e a sud dell’El­ba, gloriosa isola d’esilio, esi­stono un’altra Pianosa e un’al­tra Capraia: i nomi delle isole talvolta si ripetono, come suc­cede nelle famiglie. E non ci sono solo bei nomi. Li danno più spesso quelli che arrivano sulle isole dal mare che non gli stessi isolani, i quali invece denominano le località che circondano con più o meno grande amore o fortuna. Ci sono molti scogli che non sono abitati, oppure che non hanno nome. Ce ne sono più di seicen­to sulla sponda orientale del­l’Adriatico. Non so chi e con quale criterio abbia catalogato e distinto le rocce che spunta­no dal mare, e ancora meno chi le abbia contate tutte: dico­no ce ne siano quattrocento-ventisei. E’ possibile che gli spostamenti tettonici della co­sta nel frattempo ne abbiano creato delle altre. Su carte spe­ciali sono indicate le secche rocciose che spuntano dal ma­re, ce ne sarebbero più di ottan­ta (non sono mai riuscito a stabilire dove ce ne sia qualcu­na: su di esse però andavano a fracassarsi le prue e le colombe delle antiche galee). Delle grot­te nessuno sa il numero né vuole saperlo.

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