Rassegna Stampa Mailing List Histria N° 786 – 30 Luglio 2011

Posted on August 2, 2011


Rassegna Stampa Mailing List Histria
Sommario N° 786 – 30 Luglio 2011

487 – L’Arena di Pola 25/07/11 Pola – 65° anniversario della strage di Vergarolla: appuntamento il 18 agosto 2011
488 – La Voce del Popolo 23/07/11 Sarà l’olimpionica Margherita Granbassi la Madrina del Triangolare del Ricordo (Roberto Palisca)
489 – L’Arena di Pola 25/07/11 Dimostriamoci “popolo”! Ne abbiamo l’occasione (Silvio Mazzalori)
490 – Il Secolo XIX 27/07/11 Genova: Distrutta a Staglieno la lapide che ricorda le foibe
491 – L’Espresso 21/07/11 En attendant CROAZIA, rapporto dal Paese che si prepara a entrare nell’Ue (Mauro Manzin)
492 – L’Espresso 21/07/11 En attendant CROAZIA – E gli esuli italiani aspettano ancora (M.M.)
493 – L’Espresso 21/07/11 En attendant CROAZIA – Se apriamo gli occhi (Gigi Riva)
494 – Il Piccolo 28/07/11 Il mito del manzo Boscarin rivive nella fiera di Canfanaro (Bruno Lubis)
495 – La Voce di Romagna 29/07/11 Pirano: Quel fior di sale che restringe il mare (Roberto Venturini)
496 – Avvenire 26/07/11 Udovicich: L’uomo raro del Novara (Massimo Castellani)
497 – Latina Oggi 28/07/11 Latina: Finestra in Croazia in memoria delle vittime delle foibe (Mila Mihajlovic)
498 – L’Arena di Pola 30/06/11 Fratelli riuniti dall’amore per Pola (Paolo Redivo)
499 – La Voce del Popolo 29/07/11 Intervista a Nelida Milani Kruljac. primo premio “Istria Nobilissima” per la letteratura (Gianfranco Miksa)
500 – Il Piccolo 26/07/11 Storie dell’Istria perduta nelle “Redini bianche” di Quarantotti Gambini
501 – La Voce del Popolo 25/07/11 Fiume: Un gioiello d’ingegneria militare da recuperare e valorizzare (Gianfranco Miksa)
502 – Il Piccolo 29/07/11 Trieste – Immagini ritrovate dell’Istria nel Ventennio, al Museo della civiltà istriana un’ampia mostra fotografica sulla vita quotidiana negli anni tra il 1920 e il 1940 (Pietro Spirito)
503 – La Voce del Popolo 23/07/11 Bogliuno, un paese quasi deserto – Visita a un paesotto suggestivo compresso sulla cima di un colle (Mario Schiavato)
504 – Il Piccolo 25/07/11 Emilio Rigatti: Quel viaggio in kayak sognato tutto l’inverno sulla rotta verso Zara (Emilio Rigatti)

A cura di Stefano Bombardieri
Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti :
https://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arcipelagoadriatico.it/

487 – L’Arena di Pola 25/07/11 Pola – 65° anniversario della strage di Vergarolla: appuntamento il 18 agosto 2011
65° anniversario della strage di Vergarolla: appuntamento a Pola il 18 agosto 2011

Come da consolidata tradizione, celebreremo anche quest’anno l’anniversario dell’eccidio di Vergarolla, occorso il 18 agosto 1946, che, avendo frustrato ogni ipotesi di civile convivenza tra la componente cittadina di genuini sentimenti italiani e quella filo-titina, indusse la stragrande maggioranza dei cittadini di Pola ad abbandonare la Città, cambiandone definitivamente la fisionomia. Come di consueto, fulcro della cerimonia saranno il Duomo di Pola e l’adiacente cippo, inaugurato nel 1997 per volontà degli esuli con il supporto della locale Comunità degli Italiani, che ricorda le Vittime di quel fatto criminoso.
Che di crimine si sia trattato, al di là dalla radicata convinzione della totalità degli esuli e di una prima ammissione fatta nel corso di un’analoga cerimonia nel 2004 dall’allora Sindaco di Pola, Luciano Delbianco («…Amareggiato dal fatto che gli autori di questo crimine non sono stati scoperti e puniti ed esprimendo le mie condoglianze ai familiari delle vittime, invito a rendere loro omaggio, con la speranza che una simile tragedia non abbia più a ripetersi», le sue parole nella circostanza), è confermato da quanto emerso dagli archivi segreti britannici, recentemente desecretati. La stessa fonte fornisce oggi più di un’indicazione sulle oggettive responsabilità del crimine, avanzando persino dei nomi al riguardo; pertanto, non del fatto si dovrebbe ancora parlare quanto, semmai, dei suoi autori.
La nostra cerimonia, che vuole essere solo un atto di elevato e condiviso valore morale in memoria di quelle vittime sicuramente innocenti, non sarà, comunque, né il momento né il luogo per discutere di questo, anche se il venire a capo della verità di questa tragica pagina della storia di Pola rimane un’esigenza primaria, da affrontare senza le animosità del passato, sia per la ricomposizione del tessuto sociale cittadino allora strappato sia per il rispetto delle rispettive, ancorché disgiunte, memorie.
Le “strisce” che completano questa pagina, opera grafica di Andrea Minetti, gentilmente messeci a disposizione per questa “prima uscita” dalla Mailing List Histria su iniziativa della prof.ssa Maria Luisa Botteri, intendono ripercorrere, in maniera originale, quei tristi e tragici momenti, già tante volte raccontati con dovizia di parole e testimonianze di protagonisti diretti.
Di seguito il programma della cerimonia, organizzata anche quest’anno dalla Comunità degli Italiani di Pola in collaborazione con l’LCPE e il Circolo
Istria:
– ore 10.00: posa in mare di una corona di fiori nella baia di Vergarolla in memoria delle vittime ad opera di una delegazione ristretta; – ore 11.00: Santa Messa di suffragio celebrata nel Duomo di Pola con la partecipazione della corale della società artistico-culturale «Lino Mariani» della CI di Pola; – ore 12.30: deposizione delle corone di fiori al cippo memoriale adiacente la chiesa; – ore 13.00: incontro conviviale alla CI di Pola con rinfresco per tutti i partecipanti; – a seguire, per quanti fossero interessati, visita nell’ex chiesa dei Sacri Cuori della mostra Pola, la nascita della città e nell’ex rifugio anti-aereo «Zerostrasse» della mostra Gli inizi dell’aeronautica a Pola.
Il Comitato provinciale dell’ANVGD e la sezione della Lega Nazionale di Gorizia organizzano un pullman che partirà da Gorizia e farà tappa a Monfalcone. Per prenotazioni e informazioni telefonare al 377-1859422 fra le
18 e le 20 (Maria Rita Cosliani) o scrivere a mariarita96@gmail.com. Un altro pullman sarà messo a disposizione dall’LCPE e dal Circolo Istria con partenza da Monfalcone alle 7.00 e fermate a Trieste alle 7.30 e a Muggia alle 8.00. Per prenotazioni e informazioni chiamare lo 0481-474191 o il
328-4583898 o inviare una mail a scropetta.fabio@gmail.com.
Alle ore 18, per iniziativa della Federazione Grigioverde e della Famiglia Polesana, inizierà sul Colle di San Giusto a Trieste la cerimonia di scopertura di una stele con i nomi delle 64 vittime identificate della strage di Vergarolla.

488 – La Voce del Popolo 23/07/11 Sarà l’olimpionica Margherita Granbassi la Madrina del Triangolare del Ricordo
a cura di Roberto Palisca
UNA DECISIONE PRESA ANZITUTTO PER ONORARE LE ORIGINI PISINESI DEI GENITORI ESULI
Sarà l’olimpionica Margherita Granbassi la Madrina del Triangolare del Ricordo
La campionessa mondiale di fioretto e plurimedagliata a Pechino 2008, Margherita Granbassi sarà la Madrina del Triangolare del Ricordo del 20 e 21 settembre. La tretaduenne triestina ha accettato l’invito di ANVGD Giovani nel rispetto delle sue origini istriane: i suoi genitori, infatti, sono esuli psinoti. Schermitrice di altissimo rango, specializzata nel fioretto, ha conquistato due medaglie di bronzo olimpiche a Pechino 2008 (nel fioretto individuale e a squadre). Tra il 2008 ed il 2009 ha partecipato alla quarta edizione della trasmissione giornalistica di Michele Santoro “AnnoZero” su Rai 2, mentre nel 2010 ha partecipato alla trasmissione “Ballando con le stelle” su Raiuno.
Dopo 70 anni, le tre squadre, le compagini calcistiche di Pola, Fiume e Zara, scioltesi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ovvero il Grion Pola, la Fiumana e il Dalmazia, rivivranno a Roma per disputare l’attesissima partita allo Stadio Olimpico. Obiettivo dell’evento è creare un incontro tra gli esuli sparsi nel mondo, far rivivere le squadre ma anche ricordare i tanti calciatori giuliano-dalmati che hanno giocato in serie A e in nazionale, segnando ben 687 reti. La manifestazione si pone anyitutto come fine di far convogliare a Roma le forze calcistiche dei giovani discendenti degli esuli giuliano-dalmati sparsi in tutta Italia. Un torneo rievocativo delle storiche squadre, che torneranno così in campo. Anche Bruno Pizzul sarà uno dei grandi nomi che parteciperanno a Roma alle manifestazioni celebrative dello sport giuliano-dalmato curate dall’ANVGD Giovani. Pizzul presenzierà alle consegne delle onorificenze del Premio Internazionale del Giorno del Ricordo e sarà presente anche allo stadio dove si terrà il Triangolare del Ricordo tra Fiumana, Grion Pola e Dalmazia.
Alla guida delle squadre che scenderanno in campo tre tecnici del calibro di Sergio Vatta, Lucio Mujesan e Pierluigi Pizzaballa.
Nella folta schiera dei patrocinanti del Triangolare del Ricordo ci sarà anche la Fondazione “Gabriele Sandri“, il cui scopo principale è quello di onorare la memoria del tifoso laziale Gabriele Sandri, attraverso la promozione di iniziative per lo studio e il contrasto di ogni forma di violenza nello sport grazie alla loro diffusione, soprattutto fra i bambini ed i giovani. La Fondazione gode dell’appoggio trasversale di tutto il mondo del calcio italiano. Fondata dalla famiglia Sandri (il padre di Gabriele ne è il presidente), nei quadri direttivi sono stati inseriti i figli di Luciano Re Cecconi e Agostino Di Bartolomei, compianti campioni d’Italia di Lazio e Roma. Nell’organigramma, tra le istituzioni, compaiono la Federazione Italiana Gioco Calcio e Roma Capitale (quest’ultima soggetto fondatore insieme alla famiglia Sandri). La Fondazione “Gabriele Sandri” ha accolto con favore l’iniziativa del Triangolare del Ricordo e saranno previste, oltre al patrocinio, ulteriori iniziative comuni. Nella due giorni il programma prevede anche la consegna dei Premi internazionali del Giorno del Ricordo, dedicati quest’anno al settore sportivo e che vedranno protagonisti personaggi come il pugile Nino Benvenuti (istriano, campione del mondo e olimpico a Roma 1960), il marciatore Abdon Pamich (fiumano, campione olimpico a Tokyo 1964), lo stilista Ottavio Missoni (dalmata e azzurro di atletica leggera alle Olimpiadi di Londra 1948), il pilota Mario Andretti (istriano, pilota della Ferrari e campione del mondo di Formula Uno nel 1978).
A dare spessore all’evento si aggiungerà un convegno dedicato allo sport giuliano-dalmata, a cura della Società Italiana di Storia Sportiva, organizzato in collaborazione con l’Associazione nazionale Atleti olimpici e Azzurri d’Italia.

489 – L’Arena di Pola 25/07/11 Dimostriamoci “popolo”! Ne abbiamo l’occasione
Dimostriamoci “popolo”! Ne abbiamo l’occasione

C’è una metafora di manzoniana memoria che, più di ogni altra, si presta ad illustrare all’immaginario collettivo l’attuale realtà associativa degli esuli istriani, fiumani e dalmati. È quella dei polli che, legati assieme ed avviati ad un comune destino, l’estinzione, continuano, apparentemente inconsapevoli di ciò che li spetta, a beccarsi tra di loro. Campanilismi, faziosità ed esasperati personalismi hanno fatto sì che questa fosse l’unica rappresentazione di noi che siamo stati capaci di proiettare all’esterno e, che di certo, in nessun modo ci ha giovato né in ambito nazionale né, tanto meno, in quello internazionale.

Sarebbe ora di cambiare registro e, di questi tempi, sembra proprio che ce ne venga data l’occasione. I tempi, noi volenti o nolenti, stanno cambiando; il vento della storia sta girando; barlumi di luce si intravvedono in fondo al tunnel. È da ciechi non prenderne atto, sarebbe da stolti non saper cogliere le opportunità che ci vengono offerte e demenziale ostacolare il cambiamento.

L’accolto con diffuso scetticismo e da tanti bistrattato “spirito di Trieste” non è rimasto, com’era lecito immaginare, un isolato e, tutto sommato, inconsistente fatto formale; ha avuto successivi sviluppi: piuttosto deludenti a Roma, in occasione dell’ultimo incontro italo-sloveno; certamente più positivi e promettenti – con ciò evidenziando una diversa sensibilità e disponibilità al dialogo – in occasione del recente incontro a Zagabria tra i presidenti Napolitano e Josipović. Insomma, ha aperto una strada e, alla lunga, sembra funzionare. Ne abbiamo beneficiato anche noi, in occasione del nostro recente Raduno Nazionale a Pola e ne potranno beneficiare diversamente altri e ben più numerosi in futuro, stante l’apertura croata in tema di restituzione di beni, di cui si parla in altra parte di questo giornale.

Soprattutto, lo sta a dimostrare una dichiarazione del presidente Napolitano – «Torneremo a esprimere lo stesso spirito di Trieste anche in terra oggi croata, a Pola, a settembre. Mi recherò in Istria assieme al presidente croato Josipović per rendere omaggio alle vittime di un atroce passato, per inchinarci assieme dinanzi agli innocenti, per impegnarci a riavvicinare chi ha subito torti…» – a cui forse, fagocitati da interessi materiali, non è stato dato il dovuto rilievo. Sono parole che, in particolare, non possono escludere in alcun modo l’eventualità di un omaggio, in terra croata, anche alle vittime delle foibe.

Di questo – non poco, in verità – qualcuno ha provato ad auto accreditarsi dei meriti particolari; altri sono stati, invece, indotti a richiedere, in occasione della prevista visita a Pola, poi annullata, dei presidenti Napolitano e Josipović alla locale Comunità degli Italiani, un incontro esclusivo con i rappresentanti di FederEsuli. Fermo restando che nessuna delle nostre associazioni rappresenta gli esuli nella loro totalità e che tutte indistintamente hanno sin qui commesso degli errori ma anche fatto qualcosa di buono per il bene di tutti, sono questi atteggiamenti ed iniziative che ancora una volta portano ai distinguo, all’esclusione di alcuni a beneficio di altri e, in ultima analisi, alla divisione; in definitiva, un qualcosa di profondamente sbagliato e di assolutamente non confacente al momento attraversato che ci chiede, di contro, di dimostrarci finalmente “popolo”: quel popolo istriano, fiumano e dalmato a cui sempre ci rifacciamo quando parliamo del nostro passato, che siamo incapaci di rappresentare nel presente e che abbiamo difficoltà a configurarci per il futuro.

È, però, giunto anche per noi il momento di dare segnali di cambiamento e ci sono due occasioni prossime in cui poterlo fare: il 18 agosto, anniversario dell’eccidio di Vergarolla, e il 3 settembre, data fissata per la prossima visita del presidente Napolitano a Pola. Sono avvenimenti che si verificheranno entrambi nella nostra Città ed è per questo che il Libero Comune di Pola in Esilio, anche attraverso le pagine della nostra «Arena», rivolge, con forza e convinzione, un invito all’unità e formula due proposte:
– la prima, esserci tutti, con l’educazione e la dignità che già abbiamo dimostrato di saper esprimere, alla cerimonia di Vergarolla in considerazione del fatto che, come da tanti sottolineato, quella tragedia non è stata esclusivamente “cittadina” ma ha sconvolto tutto il nostro popolo dando la spinta decisiva all’esodo;
– la seconda, per il 3 settembre, promuovere un incontro di tutte le nostre associazioni con i presidenti Napolitano e Josipović per richiedere coralmente, in particolare e soprattutto, in relazione alla sua dichiarazione di cui sopra ed in accoglimento della più frequente e pressante istanza che ci viene rivolta dalla base, di conoscere finalmente dove giacciono i nostri morti e poter andare a rendere loro omaggio.
Soprattutto in relazione a quest’ultimo appuntamento, essendoci il tempo necessario per poterlo fare, invita tutti i presidenti delle Associazioni degli esuli a volersi preventivamente incontrare per concordare una posizione unitaria.
I treni, specie quelli già in corsa, passano una sola volta. Sta solo a noi il volerci salire sopra per dare a noi stessi ed ai nostri discendenti un futuro.

Silvio Mazzaroli

490 – Il Secolo XIX 27/07/11 Genova: Distrutta a Staglieno la lapide che ricorda le foibe
Vandali e polemiche a Genova

Distrutta a Staglieno la lapide che ricorda le foibe

Genova – Ignoti nella notte hanno distrutto il monumento eretto a ricordo le vittime delle foibe nei Giardini Cavagnaro, nel quartiere di Staglieno, a Genova.
La lapide è stata spezzata, mentre è stata infranta a sassate la piastra toponomastica che reca incio `Passo Vittime delle foibe´. Sul posto si sono recati i carabinieri della caserma di Marassi.

«L’atto sicuramente è stato compiuto questa notte», dice il consigliere del Municipio IV del Pdl, Domenico Morabito, che ci ha inviato le foto, con questo commento: «I manifestanti del G8 fanno “bella figura” per tutta Genova ma colpiscono in Valbisagno. Vi invio le foto dell’atto ignobile che hanno fatto al monumento delle Foibe gli “amici” di Carlo Giuliani».

Secondo Morabito ci sono buone speranze che gli autori del gesto vandalico siano stati filmati da una telecamera, posta proprio nelle vicinanze del monumento. Nei giorni scorsi lo stesso Morabito e altri cittadini avevano protestato per l’abitudine di alcune persone di usare l’area vicina al monumento come luogo per fare grigliate e il monumento stesso come latrina.

491 – L’Espresso 21/07/11 En attendant CROAZIA, rapporto dal Paese che si prepara a entrare nell’Ue
En attendant CROAZIA

La crisi economica, un governo in calo di consensi, il virus del nazionalismo. Rapporto dal Paese che si prepara a entrare nella Ue. E dove vanno in vacanza un milione di italiani

A STAGIONE TURISTICA SARA UNA BOCCATA D’OSSIGENO PER LE CASSE DI ZAGABRIA. MA I SERVIZI NON SONO ALL’ALTEZZA DEI COSTI

DI MAURO MANZIN

Un milione di turisti italiani, come stima il nostro ministro dell’Interno Roberto Maroni, stanno facendo le valigie destinazione Croazia (da dove il presidente Napolitano è appena tornato da una visita di Stato). Per assisterli al meglio il Viminale, grazie a un accordo con le autorità di Zagabria, manderà dei poliziotti che apriranno uffici sulla costa dalmata a Spalato, Pola e Hvar. Oltre a un mare magnifico, cosa troveranno? Troveranno un Paese che, a vent’anni esatti da una guerra che ha provocato migliaia di morti e decine di migliaia di profughi, ha concluso il 30 giugno scorso il percorso per entrare nell’Unione europea (l’adesione avverrà il primo luglio del 2013). Ma anziché gioirne, dopo una corsa ad ostacoli durata sei anni, il Paese pare perplesso sui rea! vantaggi dell’approdo a Bruxelles. Colpi di una crisi economica a cui si sommano i temuti sacrifici da sopportare per rispondere ai parametri comunitari. Mentre sullo sfondo rimangono problemi ancora irrisolti legati al conflitto degli anni Novanta.

Sospesa tra passato, modernità e futuro, la Croazia è un Paese ricco di contraddizioni. Dove convivono gli opposti. C’è il ricco e borghese salotto buono di Zagabria percorso da lussuosi Suv guidati da giovani tycoon con abiti Armani. E sarebbe un indizio di successo se ancora non fosse poco chiaro il limite tra lecito e illecito in troppo repentine fortune. E se non fosse arduo distinguere tra nuovi ricchi perbene e la potente mafia dell’Erzegovina croata che si foraggia con proficui traffici di droga e armi . Poi ci sono ancora le macerie, le aree desolate come Vukovar, la città sul Danubio che fu rasa al suolo dai serbi, dove le ferite della guerra sanguinano ancora; le cartoline rurali della Slavonia dove il tempo sembra essersi fermato ai primi del Novecento. Per arrivare, infine, alle più europee e aperte coste istriana e dalmata, con gli alberghi, le spiagge, la nautica da diporto, i traghetti e i turisti. Una costa che si è adeguata al mercato in tutti i sensi, anche quelli negativi, se un caffè nei locali dello storico Stradun di Dubrovnik costa tre euro.
Contraddizioni, luci ed ombre, dunque, condite dall’agro sapore balcanico che si respira ancora in politica. Il governo di centrodestra della premier Jadranka Kosor sembra ormai fuori moda. Le misure e le decisioni prese per adeguare il Paese agli i standard europei hanno ancor più ingrossato le schiere degli insoddisfatti. Come la r lotta alla corruzione di cui viveva molta della popolazione croata e che ha portato alle manette e alla galera (a Salisburgo in Austria, dove è stato catturato) l’ex premier Ivo Sanader, proprio l’uomo che ha imboccato la svolta europea e ha iniziato a ripulire il partito di maggioranza, l’Hdz . (Unione democratica croata), dalle ultime scorie dell’ipernazionalismo imposto dal defunto presidente Franjo Tudjman, il padre dell’indipendenza. L’europeista Sanader, dunque, anche lui accusato di corruzione, affari in nero e bustarelle per svariati milioni di euro.
L’altro grande potere sul banco degli imputati è quello della Chiesa. Se negli anni della guerra dai pulpiti croati i preti salmodiavano gli inni del nazionalismo oggi i fedeli non si sentono più rappresentati dalle autorità ecclesiastiche. Una Chiesa troppo lontana dai problemi della gente che ha imposto allo Stato un conto di 5 milioni di euro per l’ultima visita a Zagabria di papa Benedetto XVI mentre non teme di spendere cifre milionarie per la nuova iperlussuosa sede dell’Arcivescovato nella capitale.
Un vero pugno allo stomaco per chi nel Paese non riesce a sbarcare il lunario. E un insulto, ad esempio, agli oltre 10 mila operai dei cantieri navali dell’Adriatico, a partire dallo storico Tre maggio di Fiume (3 mila addetti più indotto). Operai che si trovano di fronte alla privatizzazione obbligata proprio dall’adesione all’Ue. Il governo croato ha indetto già due bandi per la vendita dei cantieri di Fiume, Pola (l’unico a non essere in rosso), Portorè, Traù e Spalato che sono andati deserti anche perché la clausola vincolante era il mantenimento dell’attività cantieristica che, con l’attuale congiuntura economica mondiale, non gode certo del favore delle commesse.
Novità sono in vista per Fiume. Il re del cromo croato Danko Roncar, proprietario di miniere in Sudafrica, è interessato all’acquisto del Tre maggio e dei cantieri di Portorè e Traù, i piani di ristrutturazione sono già stati approvati da Bruxelles e ora si dovrebbe giungere alla fase conclusiva delle trattative. E gli operai tremano in quanto si teme un pesante taglio negli organici. La ristrutturazione potrebbe costituire un colpo mortale per migliaia di famiglie di Fiume e del Quarnaro. La cantieristica storicamente rappresenta un settore importante della produzione industriale croata contribuendo al 20 per cento del Pil e al 25 per cento dell’occupazione. Le attività principali sono rappresentate dai settori di base come quello siderurgico e metallurgico, petrolchimico e meccanico con la produzione di macchine agricole e tessili, materiale ferroviario e meccanico in genere. Il sottosuolo della Croazia fornisce antracite e bauxite che si trovano principalmente in Istria e giacimenti di petrolio e gas naturale situati nella Slavonia orientale nelle pianure della Drava e della Sava. Da queste zone il greggio viene inviato alle raffinerie di Fiume.

La Croazia, grande quanto Piemonte, Lombardia e Liguria insieme, ha 4,5 milioni di abitanti. Il Pil prò capite è di quasi 8 mila euro, il reddito medio è di 500 euro con un tasso di disoccupazione che tocca il 24 per cento. Il livello delle importazioni si attesta attorno ai 9 miliardi di euro, mentre quello delle esportazioni tocca quota 4 miliardi. Nell’interscambio commerciale l’Italia è al primo posto seguita da Germania e Slovenia. Particolarmente interessante è la penetrazione bancaria italiana con Unicredit che ha rilevato il principale istituto di credito croato.
Dati economici non brillanti, insomma, che sono anche la causa della crisi di consensi del governo. Gli ultimi sondaggi danno il partito del premier in caduta libera e
nelle stanze del potere c’è ancora molta incertezza sul quando indire le prossime elezioni politiche che erano previste per il prossimo 25 novembre. Prima, infatti, bisognerà indire il referendum per l’adesione all’Ue. Il cui esito non è del tutto scontato, nonostante l’Eurobarometro, proprio nelle ultime settimane, indichi una ripresa di fiducia. Il 56 per cento dei croati sarebbe a favore dell’adesione alla Ue, con il 34,2 di contrari e il 10 di indecisi. Nell’inchiesta, condotta dall’istituto Hendal per conto della televisione pubblica Hrt, il 40,8 per cento degli intervistati ha detto di ritenere che l’ingresso nell’Unione europea non porterà alla Croazia alcun cambiamento, il 35,7 si aspetta benefici mentre per il 23,5 avrà conseguenze negative.
Le note positive riguardano il florido settore turistico. Nel 2010,11 milioni di presenze con 54 milioni di pernottamenti, e ci si aspetta di ripetere o migliorare l’exploit nella stagione appena iniziata. Mare significa anche pesca (15 mila tonnellate di pescato l’anno). E poi una ricettività migliorata, anche se non sempre all’altezza delle stelle esibite, sono i servizi negli alberghi. Resta ancora radicata una mentalità statal-titina in base alla quale il turista è una seccatura perché ti impone anche di lavorare per prendere lo stipendio.
Decisamente in progresso, infine, i rapporti della Croazia con gli Stari confinanti. E stata avviata una fase di riconciliazione con la Serbia sopratutto per la volontà del presidente della Repubblica Ivo Josipovic (socialdemocratico). Si è anche concluso l’annoso contenzioso per il confine con la Slovenia per la sovranità delle acque del golfo di Pirano. E dove non è riuscita la diplomazia bilaterale, giudicherà un arbitro internazionale, con buona pace dei sempre presenti nazionalismi (nell’aprile scorso ci sono stati scontri e manifestazioni dopo la condanna a 24 anni inflitta dal Tribunale deli’Aja al generale croato Ante Gotovina per crimini contro l’umanità). Quanto all’Italia si è finalmente arrivati, 55 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, all’atto di riconciliazione voluto dai presidenti Giorgio Napolitano e Ivo Josipovic oltre che dallo sloveno Danilo Turk. “‘Spirito di Trieste”, dal luogo dell’incontro, è stata ribattezzata l’atmosfera cordiale. Uno spirito che dovrebbe aleggiare tanto più adesso grazie alla comune appartenenza sotto l’ombrello europeo. ■

492 – L’Espresso 21/07/11 En attendant CROAZIA – E gli esuli italiani aspettano ancora
E gli esuli italiani aspettano ancora

Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha promesso che l’Italia sarà II primo Stato europeo a ratificare l’adesione della Croazia all’Unione europea. I rapporti tra i due Paesi sono improntati al sereno con semestrali riunioni del Comitato dei ministri. Ma non è stato sempre così. Alla proclamazione dell’Indipendenza di Slovenia e Croazia è venuto al pettine II nodo dei beni abbandonati dai 350 mila esuli che hanno lasciato nel dopoguerra l’Istria, Fiume, e la Dalmazia. Lubiana e Zagabria però con legge dello Stato decisero di assumersi gli Impegni presi dall’alloro Jugoslavia con Roma. Slovenia e Croazia ereditarono dunque i doveri previsti dal Trattato di Osimo (1975) e agli Accordi di Roma (1981) in base ai quali la Repubblica federativa socialista di Jugoslavia si Impegnava a versare all’Italia 110 milioni di dollari quale Indennizzo del beni abbandonati dai nostri esuli. La Slovenia ha già versato la sua parte (75 milioni di dollari) in un conto fiduciario presso la Dresdner Bank del Lussemburgo, gli altri 35 sono a carico della Croazia che, finora, non ha versato però nemmeno un dollaro. Le associazioni degli esuli e la destra italiana ha immediatamente chiesto la restituzione materiale dei beni abbandonati, ma il governo di Roma ha stabilito II principio, sancito dall’allora ministro degli Esteri Renato Ruggiero che “pacta sunt servanda” per cui resta valido il Trattato di Osimo. Esiste una commissione bilaterale italo-croata che sta lavorando da anni a eventuali casi di beni extra Osimo ma finora non c’è stato alcun risultato nel merito.

Ci sono i beni abbandonati in Istria. E ci sono poi gli italiani che ancora vi abitano, una minoranza stimata al censimento del 2001 (la nuova stima della popolazione verrà fatta proprio quest’anno) In circa 20 mila persone. Per l’esattezza si sono dichiarati di nazionalità italiana in 19.636 mentre sono In 20.521 quelli che si sono certificati di madrelingua Italiana. Gli Italiani sono distribuiti in 51 “Comunità Nazionali Italiane locali” nell’area dell’Istria, delle isole del Quarnaro e della Dalmazia e sono organizzati nell’Unione Italiana con sede a Fiume. Nella stessa Fiume e nell’arcipelago dei Lussini sono riconosciuti da alcuni statuti comunali come popolazione autoctona, mentre nel resto del Quarnaro e In Dalmazia non viene riconosciuto loro nessuno status particolare. Infine, nel corso del diciannovesimo secolo, un numero considerevole di artigiani Italiani si trasferirono a vivere a Zagabria dove è attiva una Comunità Italiana e in Slavonia, nella parte più occidentale del Paese al confini con la Serbia, dove tuttora abitano molti loro discendenti. I nostri connazionali godono di un regime di tutela sancito dalla Costituzione e hanno un seggio garantito al Sabor (parlamento) croato.

M.M.

493 – L’Espresso 21/07/11 En attendant CROAZIA – Se apriamo gli occhi
Se apriamo gli occhi

GIGI RIVA

L’estate di vent’anni fa, l’Adriatico era un mare di guerra. Echi dell’implosione dell’ex Jugoslavia arrivavano fin sulle coste da dove fuggivano i turisti. Che ora si preveda un milione di italiani pronti ad invadere le spiagge dell’Istria e della Dalmazia è il sintomo più evidente dì un proficuo cammino che è stato fatto. Ma non bisogna dimenticare tutti i problemi ancora aperti nei Balcani e le scorie di nazionalismi che ancora avvelenano gran parte della vita pubblica. Salutiamo la fine della corsa della Croazia per entrare nell’Unione europea, però Zagabria deve ancora dimostrare, oltre i lacci burocratici, di meritare un’accoglienza che è stata possibile solo chiudendo alcuni occhi. Che dovremmo però riaprire. Per quanto ci riguarda direttamente quello Stato non ha ancora versato un euro dei risarcimenti per i beni dei nostri esuli che si era impegnato a onorare. E il ministro degli Esteri Franco Frattini dovrebbe porre con forza la questione al suo omologo d’oltremare prima di promettere, come ha fatto, che l’Italia sarà la più zelante a ratificare il trattato d’adesione. Segno di quanto la questione degli esuli sia stata storicamente sottovalutata da Roma e quanto continui ad esserlo. Deve anche, la Croazia, liberarsi del fardello di una rumorosa fetta della popolazione ancora incantata dalle sirene del richiamo etnico se la recente condanna all’Aja del generale Ante Gotovina ha provocato moti di piazza che il partito al potere, l’Hdz, non ha voluto o potuto condannare con forza a causa del ricatto elettorale di una base che in parte ha ancora accenti estremisti. E deve impegnarsi maggiormente, il governo di Zagabria, contro quella mafia erzegovese che non solo droga il mercato, ma è ancora attaccata al sogno che la terra d’origine, l’Erzegovina appunto, possa riunirsi alla madre patria per formare la vagheggiata “Grande Croazia”. L’ingresso in Europa può rappresentare la spinta, per i veri riformisti, a isolare le frange più riottose. E in questo senso Bruxelles bene ha fatto ad aiutare la Croazia a superare alcuni oggettivi ostacoli. A patto che la Croazia, adesso, si aiuti anche da sola.

494 – Il Piccolo 28/07/11 Il mito del manzo Boscarin rivive nella fiera di Canfanaro
Il mito del manzo Boscarin rivive nella fiera di Canfanaro

di Bruno Lubis

CANFANARO E’ la festa del patrono, san Giacomo, i cui resti furono trovati nel Nord della penisola iberica, rivelati in sogno dall’arcangelo Michele a un giovinetto. Nel campus stellae, oggi in spagnolo Compostella, dopo centinaia di anni, il corpo dell’apostolo riemersero miracolosamente intatti come oggi sono venerati. E san Giacomo è anche il patrono di Canfanaro, cittadina compresa nella terra istriana dei Bumbari – con Dignano, Sanvincenti e Gimino – così chiamati dalla metà del secolo 19.o. In occasione della festa di san Giacomo, a Canfanaro si svolge da pochi anni la rassegna del manzo istriano, il Boscarin, un tempo ricchezza per tante famiglie e oggi ridotto a reliquia preziosa della biodiversità e perciò stesso oggetto di culto. Una coppia di boscarini, solo fino agli Anni Quaranta, era sinonimo di opulenza perché consentiva di lavorare la terra propria e offrire giornate di lavoro a chi non possedeva i manzi bianchi, solenni e sereni, forti per antica selezione. Bestie arrivate nei millenni dalla Podolia asiatica, forse al seguito di Attila, poi con gli Avari, gli slavi del Sud a trainare masserizie per poi fermarsi in Istria a lavorare, appunto secondo il nome, nei boschi a trasportare tronchi che Venezia tramutava in navi e quindi in denaro e potere per almeno sei sette secoli. Oltre che in Istria, il manzo podolico lo si trova in Puglia e Basilicata, al seguito dei Longobardi. Nel tempo è stato insanguato con bovini romagnoli – di affinità fisiche straordinarie – ma anche con tori provenienti dal Meridione d’Italia. I discendenti dei tori arrivati dal Sud venivano chiamati generalmente Napoli, gli altri hanno portato all’infinito i nomi di Gardellino, Boscarino, Caparino. Naturalmente le vocali finali sono un tributo alla lingua italica e popolarmente non erano pronunciate. Certe linee di sangue femminile erano arrivate dalla Romagna ma il tipo di bovino è sempre stato uniforme: pelo bianco dopo la castrazione, i tori con collo e spalle scure, le femmine grigio topo o bianche a loro volta. I vitelli nascevano del colore fromentino, a memoria delle grandi migrazioni dei buoi rossi dei millenni andati, per poi diventare del pelo dei maremmani, bovini che sono i cugini più selvatichi dei boscarini istriani che oggidì sono tornati in auge grazie alla loro carne, davvero pregevole. E di carne ce n’è tanta se un manzo adulto si avvicina ai 10 quintali da vivo. E qualcuno va oltre, le punte possono arrivare ai 13 o 14 quintali. Carne di gran qualità, per lo meno degna di paragonarsi a quella dei manzi d’avorio della val di Chiana e del bue grasso piemontese, quello dalla coscia doppia che va in rassegna a Carrù, in provincia d’Alba all’inizio dei mesi freddi. Oggi che non c’è più bisogno dei manzi per lavorare i campi, la ricchezza di questi solenni bovini dalle corna a lira si misura in quintali di carne da mangiare. Colpa del progresso tecnologico. Ma almeno la razza non si è estinta.

495 – La Voce di Romagna 29/07/11 Pirano: Quel fior di sale che restringe il mare
Un documento del 1831 racconta tutti i luoghi e le tecniche di produzione nell’Alto Adriatico
Quel fior di sale che restringe il mare
A Pirano e a Cervia festeggiano l’antichissima arte dei salinai

di Roberto Venturini

La raccolta del sale si fa nei tre mesi giugno, luglio e agosto quando non \i scenda pioggia “Pirano supera tutti li altri luoghi nella quantità delle saline, e di sali”

Sponde diverse, feste diverse in diversi momenti dell’anno ma un unico prezioso fiore che sboccia su entrambe le sponde, il candido sale sul quale si è fondata per secoli una florida economia tutta fondata sul mare, fonte inesauribile del prezioso alimento e strada per farlo viaggiare di luogo in luogo. Pirano e Cervia sono le regine delle saline nell’Alto Adriatico ed entrambe tributarie di Venezia verso i cui capienti magazzini partivano carichi i trabaccoli dalla terra romagnola. Cervia ha appena ricordato questa sua antichissima tradizione ripercorrendo, come da molti anni a questa parte, “la rotta del sale”, una manifestazione della quale trattiamo al piede della pagina.
Pirano invece festeggia le sue saline in primavera e dalla comunità italiana di quella città, tramite il nostro concittadino Gianni Ruzzier, piranese di origine, ci arrivano le foto che illustrano questi articoli. Cos’ il sale diventa l’occasione per un gemellaggio sulla carta che sarebbe bello vedere nascere anche tra le onde di un mare che, ed era ora, si sta facendo sempre più stretto. Interessanti notizie sulla tradizione dei salinai ci vengono dai documenti che pubblichiamo in questa pagina e che approfondiscono diversi aspetti su quell’attività.

Il testo che proponiamo di seguito è tratto da l’Archeografo triestino del 1831 ed è intitolato Le saline di Pirano. In realtà i luoghi di produzione del sale erano molto numerosi nell’Alto Adriatico. Solo nella zona istriana il documento menziona le saline di Capo D’Istria, Muja e Isola; vi erano inoltre alcune saline a Pola “sullo scoglio de Brioni”, che tuttavia nel 1831 erano già scomparse. Ma in testa a tutti era Pirano, che “supera tutti li altri luoghi nella quantità delle saline e sali”.
Venezia pretendeva la decima sulla produzione di sale e in cambio lasciava libere le genti istriane di vederlo dove volevano ma soltanto via terra, comminando “rigorosissime pene a chi per mare ne porta fuori”. Il sale si misurava e si vendeva a moggio, un’unità di misura che, secondo quanto riferisce l’archivio dei beni culturali, equivarrebbe oggi ad una capacità di 333,27 litri.
Per capire meglio quanto racconta il documento diremo anche che con il termine “cavedini” si definiscono i bacini salanti, i quali misuravano in media dieci metri di lunghezza per cinque di larghezza. Da ogni cavedino si ricavavano circa quattro moggi di sale e quindi più o meno due tonnellate e mezzo che nel 1831 si vendevano a diciotto
tire u moggio, un prezzo più che soddisfacente a quanto risulta dal testo che stiamo analizzando secondo il quale “queste saline portano una gran ricchezza a quella comunità”.
A lavorare nelle saline erano soprattutto le donne, che lo raccoglievano quotidianamente “nei tre mesi giugno, luglio, e agosto” e ogni due giorni “nelle stagioni medie”.
“Il sale d’Istria è assai bianco, e buono”, scrive l’Archeografo, “ma diverso uno dall’ altro” ma il più prezioso era “il fior di sale”, il primo che si raccoglieva, “bianchissimo come la neve” sopra a quello che si depositava nei cavedini.

Le saline dell’ Istria sono famose sovra tutte le altre dell’Italia, dalle quali si cava una gran copia di sale con utile grandissimo dei luoghi, e dei padroni di esse. Le principali sono quelle di Capo d’Istria, e Pirano. A Capo d’Istria li cavedini al numero di tremille, sono intorno una parte della Città a Levante, e mezzogiorno; suol ogni cavedino far moggia quattro di sale. Un moggio consta di staja dodici. La serenissima repubblica di Venezia, ne ha la decima, e la si paga al moggio. Nel resto concede libertà di vender a chi gli piace per terra non per acqua, essendo rigorosissime pene a chi per mare ne porta fuori; ed essendo al presente da quei di Trieste moltiplicate le saline, i cittadini di Capo d’Istria con difficoltà esitano i loro sali. A Trieste oltre le antiche saline più volte rovinate da Veneziani, già da un tempo in qua ne hanno fatto molte altre disfacendo i campi e prati che erano quivi vicini al mare, e col terreno portato alle rive hanno ampliato il sito, ridotto i terreni a bellissime saline. Questi lo vendono ai Tedeschi, i quali per avanti venivano a provvedersi a Muja, e a Capo d’ Istria. Muja ha antiche saline, e già tempo ne faceva sali il doppio di Trieste. Dà l’ottava parte alla Comunità, il resto vien venduto per terra a forestieri per Germania ed Ongaria,

Capo d’Istria fa sale il doppio di Muja, e la raccolta un anno con l’altro, scrive il Manzioli, esser moggia settemila.
Isola ha saline, che fan sale per la terna, e territorio. Pirano supera tutti li altri luoghi nella quantità delle saline, e sali, dandovi la comodità la valle di Sizziole, e il golfo del Largon, e queste saline portano una gran ricchezza a quella comunità, e a contadini. Danno i loro sali alla serenissima repubblica di Venezia , così convenuti nel prezzo di lire dieciotto il moggio, qual è di stara tredici, uno staro aggiunto per le male spese, e cali. Qui sono grandissimi magazzeni pubblici, ove lo ripongono. Hanno i suoi ministri che lo ricevono, e
a suoi tempi lo conducono a Venezia per transmetterlo alle Città e luoghi di terra ferma. Fa un provve-ditor sopra il sale il Senato, essendo questo il primo, e singolarissimo utile che la Repubblica cavi dall’Istria, poiché essa a Piranesi lo paga lire dieciotto il moggio, e lo vende ducati trentasei, onde sottratte tutte le spese di condotte, provveditori, ministri, fabbriche, si crede cavi ducati trentadue per ogni moggio. Vi erano alcune saline a Pola sullo scoglio de Brioni, le quali sono state distrutte. Ad Orsara se ne era fatto qualche principio, e ne ho vedute le ducali di poterle fabbricare dalli vescovi padroni di quel luogo, ma al presente non vi è cosa alcuna. Il sale d’Istria è assai bianco, e buono, ma diverso uno dall’altro. La raccolta del sale che si fa nei tre mesi giugno, luglio, e agosto, estivi
ogni giorno, quando non vi scenda pioggia, e negli altri due delle stagioni medie, ogni due giorni, se ne raccoglie più, e meno secondo rallenta, o accresce il caldo. Le donne spezialmente lavorano nelle saline.
In questi luoghi parimenti si fan il fior di sale, che è bianchissimo come la neve, e lo accomodano in certe cannelle a guisa di meloni, che va per molti luoghi come regali gentilissimi.
Il fior di sale vien raccolto di sopra il sale nelli cavedini. A Città Nuova l’estate, restando l’acqua salsa sopra le grotte del mare nel calar della marina, e ripercosso del sole, la sera si ritro-
va convertita in sale bianchissimo, e se ne può raccogliere qualche scodella ogni giorno.

Sul litorale
“Dappertutto si loda ora il sale d’Istria”

LE SALINE DEL LITORALE- Dall’Osservatore Triestino del 10 aprile 1863

Essendo il sale un articolo di prima necessità tanto per gli uomini, ci quanto per gli animali per le sue pregievoli qualità digestive, se ne fa ovunque un gran consumo e da che la sua fabbricazione in Istria è libera e la sua qualità è stata ben perfezionata si ha a buon diritto il vanto di non temere la concorrenza di altri paesi, di poter ben servire lo Stato e di essere eziandio al caso di esportarne all’estero vistose i quantità con decoro e vantaggio. Prova ne è che dappertutto si loda ora il sale d’Istria e che da un anno a questa parte, e precisamente dal febbraio 1862 a tutto febbraio 1863, si spedirono da Pirano vari bastimenti carichi di sale bianco d’Istria a Salonicco, Braila, Nuova-York e Calcutta con 153,982 centinaia e che rilevanti commissioni si attendono da quei paesi e da altri. La limitazione fissata all’Istria pei bisogni dello Stato per l’anno camerale 1862 fu di 400,000 centinaia di sale bianco di cui a Pirano, avente un area di klafter quadrati 1,745,861 di fondi salini, toccò di tangente 284,459 cent. Da questa esposizione risulta che i proprietari delle saline di Pirano e Capodistria, malgrado la bassezza del prezzo del sale percepirono nell’anno 1862 182,000 Fiorini dall’erario; 31,000 id. circa da privati per l’esportazione all’estero del sopravanzo di 153,982 centinaia venduti a circa 20 soldi al centinaio.

Un ringraziamento sentito alla comunità italiana di Pirano e a Gianni Ruzzier che ci hanno invaio le fotografie pubblicate in questa pagina.

496 – Avvenire 26/07/11 Udovicich: L’uomo raro del Novara
Udovicich: L’uomo raro del Novara

DAL NOSTRO INVIATO A NOVARA

MASSIMILIANO CASTELLANI

Lo svettante “Nini”, negli anni ’60-70 è stato una figurina Panini rara quanto Pizzaballa: «Sarà dura battere il mio record: “520” gare con la maglia del Novara»

Per celebrare lo storico ritorno in Serie A del Novara, dopo 55 anni d’attesa, potevamo partire rispolverando il mito indelebile di Silvio Piola, al quale è intitolato lo stadio con il primo campo in erba sintetica nella massima serie (ora c’è anche quello di Cesena). Oppure potevamo rivedere il film della promozione dei ragazzi di «quel gran signore dell’Attilio Tesser», come dice Maria Rosa, la mamma di Silene la giovane chef di Novarello: il centro sportivo all’avanguardia e stile british creato dai patron De Salvo. L’uomo con cui invece vogliamo ripercorrere la storia ultrasecolare del Novara Calcio (nato lo stesso anno dell’Inter, 1908), ritornato tra le grandi del calcio, è il «gigante dello svettare lucente» Giovanni Udovicich detto “Nini”. La bandiera, la pelata più famosa delle figurine Panini degli anni ’60 e 70, una rarità per i collezionisti, pari a quella di Pizzaballa. «Con Pizzaballa abbiamo fatto il militare insieme…», attacca Udovicich, nato a Fiume nel 1940 e arrivato a Novara all’età di sei anni, con la sua famiglia, insieme ai quasi duemila profughi sfollati dall’Istria. «Di là non ci volevano e quando, dopo tanti anni, sono tornato a Fiume, mi urlavano ancora “italiano fascista”… Di qua, appena arrivati ci misero nella caserma Perrone e fuori dai cancelli sentivo genitori che quando i figli facevano storie li minacciavano: “Smettila o ti mando a mangiare lì dentro dai profughi”». Sottili, ma dolorose discriminazioni, durate fino a quando gli ex profughi istriani diventarono novaresi a tutti gli effetti, andando ad abitare le case del Villaggio Dalmazia. «È lì che sono cresciuto e il calcio era la mia grande passione, dalla mattina alla sera. U-
na domenica d’inverno, un amico più grande che aveva la Moto Guzzi mi portò a vedere il Grande Torino giocare contro la Triestina. Quando arrivai al Filadelfia ero stecchito dal gelo… Mi sciolsi in un lampo alle giocate del fiumano Loik e soprattutto a quelle del gran campione, Valentino Mazzola. Quel giorno sognai: un giorno vorrei fare il calciatore di professione. E la possibilità di coltivare il mio sogno me la diede quel sant’uomo di don Aldo Mercoli (vicedirettore del Seminario) che andava raccogliendo tutti i giovani degli oratori per farli partecipare al suo “Torneo dei Ragazzi”» . In mezzo a una bagarre di oltre cinquanta squadre, il Novara vide svettare tra tutti, quel ragazzone che a quindici anni già superava il metro e ottanta d’altezza. Tre anni dopo, il debutto in Serie B contro il Bari. «Ma come centravanti e non da stopper», interviene la signora Maria Rosa, moglie e almanacco vivente a supporto del suo Nini con il quale «nel 2017» festeggerà le nozze d’oro. «Ah il 17, che brutto numero. Non mi è mai piaciuto. Mai entrato in campo o u-scito di casa senza farmi il segno della croce, ma sono sempre stato anche un po’ superstizioso, avevo i miei riti scaramantici. Così quando dicono che ho fatto 517 presenze con il Novara, io preferisco eliminare il 17 e dire che sono 520». Tutte gare disputate con la stessa maglia e quel numero “5” stampato sulla schiena e nell’anima, dal lontano 18 maggio 1958 (giorno di Catania-Novara). «Adesso quel numero di maglia lo porta Ludi, ma io per caratteristiche mi sento più affine a Lisuzzo». I due ragazzi che formano la coppia centrale difensiva del Novara, pronta per il debutto in A. Quella categoria che per lui è rimasta sempre un miraggio. «Ad ogni inizio stagione quando a-vevo già firmato, venivo puntualmente a sapere che mi avevano cercato l’Atalanta, il Genoa, il Bologna, la Roma e la Lazio. Ma intanto rimanevo lì. Però oggi penso che sia stato giusto così, questa città è la mia vita. Qui sono nati i miei figli Diego e Luca e i miei nipotini Nicolas e Edoardo. Però, che peccato, non avere mai avuto quell’ opportunità… – smanaccia Udovicich-. Forse Tesser penserà che sono un pazzo, ma vorrei tanto chiedergli di farmi giocare un minuto soltanto. Giusto per dire: ho fatto una presenza in in A». Lo dice ridendo il Nini, ma anche con un velo di nostalgia dietro quegli occhi azzurri come la maglia del suo amato Novara, specie quando ripensa alla promozione in A sfumata nel ’76, per quel “pasticciaccio di Catanzaro”. Poi un menisco rotto gli fece appendere le scarpe al chiodo e prendere al volo un impiego alla Banca Popolare di Novara, dove i tifosi andavano a trovarlo per ricordare le sue gesta di piccolo eroe esemplare del calcio. «A San Siro, in coppa Italia contro il Milan: dovevo marcare Bigon, ma a un certo punto sulla fascia mi inventai un disimpegno di tacco e per cinque minuti tutto lo stadio mi ha applaudito. .. Mi vengono ancora i brividi se ci ripenso. Ma finiva quasi sempre così, ovunque giocavo. Contro il Genoa i giornali scrissero che avevo “ridicolizzato Pruzzo” e quella settimana mi spedirono decine di lettere per farmi i complimenti. Anastasi all’andata a Varese mi fece penare, poiperò al ritorno gli avevo preso le misure e non vide neppure l’ombra del pallone». Amatissimo da tutta Novara e omaggiato anche dai tifo -si avversari che qualche volta però non gli risparmiavano gli immancabili sfottò. «”Testa pelata”, “Nonno ritirati”, mi gridavano i più accaniti – dice ridendo – … Una volta a Taranto scendo dal pullman per entrare negli spogliatoi e uno mi fa: “Ma lei non è Udovicich, quello che giocava con il Novara una quindicina di anni fa? Lo fulmino con lo sguardo e gli faccio, guarda stupidone che io gioco anche oggi». Sorride anche Maria Rosa, con cui Nini si diverte a recitare in stile Sandra e Raimondo. «Espulsioni? Un paio in tutto» dice Udovicich, subito corretto dalla “statistica” Maria Rosa: «Ma dai Nini, molte di più…». Qualunque sia il numero esatto dei cartellini rossi e delle presenze effettive, è ancora lui la bandiera e il pezzo raro del Novara. L’ex ragazzo di Fiume che per i tifosi ha un posto d’onore, quanto Piola. «La prima cosa che Piola mi disse quando cominciai a giocare fu: “Non esaltarti mai troppo quando le cose vanno bene, così come non ti devi abbattere se ti girerà tutto contro”. È questo anche il messaggio che vorrei mandare ai miei cari ragazzi del Novara
che stanno andando incontro alla storia». Nini si alza e tenero, abbracciato a Maria Rosa, così ci saluta. Mentre se ne va, riecheggia per le stanze di Novarello quel verso così vero del poeta Fernando Acitelli, dedicato allo svettante Udovicich: «Mi alzavo. Era di Fiume! Oh, che gusto mi dava saperlo eroe e non divo».

Giovanni Udovicich
La bandiera novarese scoperto da don Mercoli – E’ stato don Aldo Mercoli a far scoprire al Novara il talento di origine istriana, Giovanni Udovicich. Nato a Fiume nel 1940, nella sua carriera ha avuto solo una maglia, quella del Novara, diventandone la “bandiera” dalla stagione 1955-56, anno in cui con la squadra “Ragazzi” vinse il campionato Csi. Ha debuttato in B nel ’58 e alternando campionati cadetti e in C ha chiuso nel 1976. Incerto il computo delle presenze, 516 o 517 ma il “Nini” è convinto che siano «520 e 6 i gol segnati con la maglia del mio amato Novara».

497 – Latina Oggi 28/07/11 Latina: Finestra in Croazia in memoria delle vittime delle foibe
La Storia

IL RACCONTO DELLA VISITA FATTO DALLA STAMPA LOCALE E IL VALORE SIMBOLICO
Il ricordo «dovuto»
Finestra in Croazia in memoria delle vittime delle foibe

L’EX sindaco Ajmone Finestra ha partecipato in Serbia e Croazia ad alcune cerimonie nelle zone che nel 1941 furono teatro di terribili massacri che coinvolsero 42mila civili. Ecco come la stampa locale ha accolto questo «politico italiano» che visita i luoghi della memoria, portando la sua testimonianza in diversi incontri pubblici.

Serbia – Clamore ed interesse per la partecipazione del Senatore Finestra alle cerimonie in memoria degli eccidi contro la popolazione serba del 1941. In questi giorni Serbia, Croazia e Bosnia hanno Vissuto un particolare e intenso momento di pacificazione con le cerimonie ufficiali dell’inaugurazione di un monumento sul monte Velebit in Croazia, alla presenza delle massime autorità dei tre Paesi, per ricordare e commemorare le oltre 42.000 vittime, civili serbi ed ebrei, trucidate nel 1941 dagli Ustascia Croati. Presente, unico italiano, il senatore Ajmone Finestra testimone oculare e tra gli ufficiali italiani che intervennero e misero fine a quei tragici eventi. Invitato ufficialmente per testimoniare su quegli avvenimenti ha anche presentato l’edizione in Serbo Croato del suo libro «Dal fronte jugoslavo alla Val D’Ossola».

Ma intanto lì a Velebit è arrivato il momento della giustizia, dopo tanti anni. La pietà per oltre 42.000 civili serbi ed ebrei, trucidati in soli 132
giorni, tra aprile e luglio 1941 dal regime nazista croato ha tardato per 70 anni, ma è arrivata assieme al grido «Grazie Italia». Grazie alle forze armate italiane fu chiuso, pressoché immediatamente, il campo di concentramento ustascia, impedendo il protrarsi di quei massacri. Un grazie dato citando apertamente il nome del senatore Finestra, testimone e partecipe a quegli avvenimenti in qualità di giovane tenente del VI° reggimento bersaglieri. Con tale gesto si è voluto sottolineare l’essenziale intervento delle forze armate italiane che, occupando nel settembre 1941 la regione di Lika e Dalmazia, impedirono il prosieguo del massacro da parte dei croati, che veniva perpetrato in una logica di vera e propria pulizia etnica. Alla luce del recente passato, questa cerimonia sembra quasi inverosimile. Le massime autorità dei tre paesi, Croazia, Serbia e Bosnia, Paesi che, fino a qualche anno fa, si sono combattuti ferocemente, il 26 giugno si sono incontrate sulla foiba «Sara-nova jama», la più grande del complesso del campo ,di sterminio Jadovno, per commemorare decine di migliaia di civili serbi ed ebrei. H tutto in nome della giustizia, della pietà, della pacificazione tra Paesi confinanti e del superamento di atavici odi etnici e religiosi. La Croazia ha reso gli onori alle vittime, con tanto di Guardia nazionale. Tra quelle vittime c’era anche il nonno materno dell’attuale
Presidente della Serbia Boris Tadic, presente alla commemorazione insieme alla madre che, in quella foiba, perse, oltre che il padre, anche lo zio e un gran numero di parenti. Dunque, tutto è possibile.
Specialmente se è in gioco l’ingresso in Europa. Con un ritardo di 70 anni, durante i quali si è negato perfino la semplice esistenza delle foibe, il riconoscimento esplicito è venuto anche dall’ex presidente croato Stipe Mesic, colui che nel 2001 rifiutò la medaglia d’oro conferita dal Presidente Ciampi all’ultimo gonfalone italiano della città di Zara.

Ora, visto che le convenienze a tacere sembrano definitivamente passate, speriamo si possa rendere il dovuto omaggio anche alle vittime italiane, visto che, ovviamente, un semplice incontro tra le autorità e i bei discorsi non bastano. Con la manifestazione in Croazia si aprono le speranze italiane che i paesi della ex Jugoslavia, Croazia e Slovenia, possano essere presenti al massimo livello istituzionale nelle cerimonie di pacificazione, sulle Foibe di B-soviza e Monrupino, proprio come da oltre 50 anni auspicano tutte le organizzazioni di profughi giuliano dalmati. Perché, come ha affermato il Presidente dell’Associazione Nazionale Dalmata, Guido Cace «finora si è reso omaggio non alle Foibe, ma all’Esodo». E intanto le foibe attendono. Silenti.

(Mila Mihajlovic,giornalista e interprete serba)

498 – L’Arena di Pola 30/06/11 Fratelli riuniti dall’amore per Pola
Fratelli riuniti dall’amore per Pola

La giornata di domenica 19 giugno è stata la più breve ma anche la più intensa, solenne e partecipata di tutto il raduno.

Alle 9 in duomo il vescovo emerito di Trieste mons. Eugenio Ravignani, esule da Pola, e il connazionale mons. Desiderio Staver, già parroco di quella parrocchia, hanno concelebrato in italiano una santa messa nella ricorrenza della santissima Trinità. Erano presenti oltre 200 persone, in maggioranza esuli polesani e/o loro discendenti, ma anche diversi “rimasti” ed esuli di altre località dell’Adriatico orientale.

Insieme alla dirigenza del Libero Comune di Pola in Esilio (LCPE) hanno assistito fra gli altri: Renato Cianfarani, console generale d’Italia a Fiume; Tiziano Sošić, vice-console onorario d’Italia a Pola; l’on. Furio Radin, presidente dell’Unione Italiana; Viviana Benussi, vice-presidente della Regione Istriana; Fabrizio Radin, presidente della Comunità degli Italiani di Pola (CIP); Claudia Milotti, presidente dell’Assemblea della CIP; Giovanni Radossi, presidente del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno; Silvana Wruss, presidente della sede di Pola della Società Dante Alighieri; Olga Milotti, già presidente della CIP; Rodolfo Ziberna, vice-presidente nazionale dell’ANVGD e presidente provinciale di Gorizia sia dell’ANVGD che della Lega Nazionale; Donatella Schürzel, consigliere nazionale dell’ANVGD e presidente del comitato provinciale di Roma; Livio Dorigo, presidente del Circolo Istria; Maria Luisa Botteri, in rappresentanza del Libero Comune di Zara in Esilio – Dalmati Italiani nel Mondo; Franco Biloslavo, segretario della Comunità di Piemonte d’Istria e membro del direttivo dell’Associazione delle Comunità Istriane; Carmen Palazzolo Debianchi, del direttivo dello stesso sodalizio; nonché diversi soci della Mailing List Histria.
Tutti i posti a sedere erano pieni, tanto che molti sono rimasti in piedi ai lati dell’ingresso. Una così folta partecipazione di pubblico a una messa in italiano a Pola non si vedeva da decenni, probabilmente dal 1947, e anche questo è un fatto emblematico che potremmo a ragione definire “storico”. Il vice-sindaco Lucio Sidari ha retto per tutto il tempo il labaro del Libero Comune di Pola in Esilio vicino al leggio: era la prima volta che ciò avveniva, a ulteriore dimostrazione dei passi avanti compiuti. Il rito è stato vissuto da tutti con spirito fraterno di unità e riconciliazione.

«Nella luce della fede e nell’amore che tutti ci unisce in una sola famiglia che ha Dio per Padre – ha affermato mons. Ravignani – sta il significato di questo ritrovarci insieme per rendere più stretto il vincolo d’amore che ci lega alla nostra città, a quanti ancora ci vivono e a quanti ne custodiscono il patrimonio. Ricordo i giorni felici dell’infanzia e la grande sofferenza di quando abbiamo dovuto lasciare questa città. Rivolgo un deferente saluto alle autorità, a quanti, insieme e con felice intuizione, hanno deciso e promosso questo raduno e a quanti vi partecipano condividendone le finalità. Un grazie va al vescovo di Parenzo e Pola mons. Ivan Milovan, che mi ha consentito di concelebrare questa funzione. A lui, oltre al comune ministero pastorale, mi lega un vincolo di fraterno affetto e di profonda gratitudine. Ringrazio inoltre il parroco e i sacerdoti della parrocchia. Vivo tale celebrazione con cuore commosso. In questa chiesa sono stato battezzato, ho ricevuto la prima comunione, la cresima e la confermazione. Ricordo inoltre i parroci e i sacerdoti che hanno adempiuto in perfetta devozione il loro servizio. L’amore di Dio è più grande della nostra debolezza».

La prima lettura è stata affidata al sindaco dell’LCPE Argeo Benco, mentre il salmo responsoriale, la seconda lettura e la preghiera a soci della CIP. La celebrazione è stata inframmezzata dagli splendidi canti del coro della società artistico-culturale “Lino Mariani”, contraddistinti dalla profondità delle voci maschili e dalla soavità di quelle femminili. Davvero emozionante il «Kyrie eleison» durante l’atto penitenziale.

Al termine della messa il console generale d’Italia a Fiume Renato Cianfarani ha preso la parola con signorile umiltà. «Ringrazio – ha detto – le autorità ecclesiastiche, la Regione Istriana e voi rappresentanti del Libero Comune di Pola in Esilio e della Comunità degli Italiani di Pola. È molto bello che siate tutti assieme. Per me, rappresentante dell’Italia, è molto difficile non sentire la commozione di questo momento simbolico e sostanziale, in cui ci si sente tutti fratelli e si va verso il futuro. So delle sofferenze, delle violenze, delle sopraffazioni che vi hanno colpito. Molto tempo è passato sia dal 1943-45 sia dal 1947, ma non è cambiato l’amore che tutti voi nutrite per questa bellissima città. So che continuerete ad amarla, così come l’Istria e l’Italia. Avete trasmesso il vostro amore ai vostri figli. Molto è cambiato da quell’epoca: i nazionalismi si sono sgonfiati e le ideologie che hanno causato tanti lutti stanno morendo. Non è così facile, ma siamo sempre più vicini alla comprensione, alla tolleranza e al volerci bene. Anche queste terre entreranno nell’Unione Europea. Dobbiamo lottare contro le frontiere e le categorie “loro/noi” che abbiamo nella testa. Siamo in un momento particolarmente significativo. So che vi saranno altri incontri. Questo non è il luogo adatto per parlarne, perché è la casa del Signore, ma voglio dirvi che l’Italia è vicina a tutti voi e sa quello che è successo. Come italiani non dobbiamo dimenticare la storia, bensì mantenere le tradizioni, la lingua, l’identità. Con piacere e un po’ di commozione vi saluto tutti».

Il sentito intervento del console ha suscitato in più di qualcuno lacrime sincere che si sono aggiunte a quelle già abbondantemente versate durante la cerimonia. Il coro misto ha eseguito un canto che invocava la benedizione di Dio sulla «nostra città» e ha concluso con un toccante «Va’ pensiero», provocando ancora qualche lacrima e un applauso catartico finale, ripetutosi al momento dell’uscita dei chierici.
Dopo la messa sono state scattate delle storiche foto di gruppo intorno al cippo che ricorda le vittime di Vergarolla e poi davanti al tempio di Augusto. Quindi la maggior parte dei partecipanti si è recata al Cimitero di Marina a Stoia. Qui il console Cianfarani, mons. Ravignani, mons. Staver, i dirigenti dell’LCPE e della CIP e tutti i presenti hanno reso omaggio al cippo che ricorda il sacrificio di Nazario Sauro.

Quindi il gruppo si è spostato al Sacrario Italiano. Il direttore de “L’Arena di Pola” Silvio Mazzaroli ha raccontato che nel 2002, quand’era sindaco dell’LCPE, un amico polesano che ritorna in quei luoghi d’estate gli aveva parlato di un monumento sul lungomare di Lisignano ai 96 naufraghi della real nave «Cesare Rossarol», un cacciatorpediniere allora chiamato «esploratore» che, partito da Pola il 16 novembre 1918 in direzione di Fiume, incappò in una mina al largo di Lisignano spezzandosi in due. Ciò avveniva appena 13 giorni dopo la fine della Prima guerra mondiale.
«La prua – ha riferito Mazzaroli – proseguì per qualche centinaio di metri, mentre il restò della nave si inabissò sul posto in pochissimi minuti. Il comandante, capitano di vascello Ludovico De Filippi, fu decorato con la medaglia d’argento per aver ceduto il proprio salvagente a un marinaio che in tal modo poté salvarsi. Il monumento fu edificato poco tempo dopo in pietra d’Istria con una grande ancora e con una lapide bronzea per volontà e a spese delle famiglie dei caduti. Fu quindi donato alla Marina Militare Italiana, che ogni 16 novembre fino al 1942 vi tenne annualmente una grossa cerimonia. Poi cadde nell’oblio, ma ciononostante ha resistito all’usura del tempo e ai danneggiamenti. Nel 2003 il console generale d’Italia a Fiume Pietrosanto iniziò una pratica per il restauro del monumento, ma il progetto è ancora in itinere. Abbiamo pensato di riprodurre intanto la targa bronzea e di posizionarla nel Sacrario Italiano del Cimitero di Marina perché il monumento di Lisignano resterà comunque al di fuori degli itinerari turistici e cerimoniali. Qui invece almeno il 2 novembre i naufraghi saranno ricordati».
Dopo il discorso di Mazzaroli è stata tolta la bandiera italiana che copriva la targa. Salvatore Palermo per l’LCPE e Claudia Milotti per la CIP hanno deposto una corona d’alloro e Mons. Ravignani ha benedetto la targa. Quindi dall’altoparlante è stato fatta risuonare la Preghiera del marinaio.

In contemporanea un gruppo di radunisti impossibilitati a partecipare ha seguito Lino Vivoda in una breve visita guidata per Pola. Il raduno si è concluso con il pranzo di commiato, che all’Hotel Riviera ha visto la gradita partecipazione del console Cianfarani.

Paolo Radivo

499 – La Voce del Popolo 29/07/11 Intervista a Nelida Milani Kruljac. primo premio “Istria Nobilissima” per la letteratura
INTERVISTA A NELIDA MILANI KRULJAC, PRIMO PREMIO A «ISTRIA NOBILISSIMA» PER LA LETTERATURA
L’irrazionalità del male e le sue conseguenze
«Il triciclo» narra un massacro di civili,di vecchi, donne e bambini in un villaggio in montagna
POLA – “Un racconto articolato che rivela maturità di scrittura e sicurezza di conduzione narrativa; e che prospetta una condizione di violenza e di orrori, generati dalla guerra, e un doloroso desiderio di ristabilimento della giustizia. La narrazione è condotta in modo incisivo, tra richiami a eventi storici e considerazioni paradigmatiche dei problemi toccati”. È la motivazione con cui la giuria ha assegnato il primo premio al Concorso d’Arte e di Cultura “Istria Nobilissima” 2011 a Nelida Milani Kruljac.

L’autrice polese, uno dei massimi esponenti della letteratura dei “rimasti”, ha all’attivo un ricco e pluripremiato opus letterario, che non ha bisogno di particolare presentazione. Diremo solamente che la scrittrice si è imposta sulla scena letteraria italiana grazie a uno stile di scrittura carico di limpida intelligenza e di una bruciante ironia.
Nelida Milani Kruljac ha partecipato all’ultima edizione del concorso principe della nostra realtà comunitaria nella Categoria Letteratura – Prosa in lingua Italiana, conquistando l’onorificenza più alta con il racconto “Il triciclo”. La storia del racconto narra l’irruzione della violenza in tempo di guerra in un tranquillo paesetto di montagna. E nel preciso momento di un massacro di civili, di vecchi, donne e bambini. Come illustrato da Nelida Milani Kruljac, nel racconto si può ravvisare il paesaggio istriano, si può anche attribuire a una città il nome di Fiume.

“Il contesto nostrano è inevitabile ed è riconoscibile – spiega –, ma non ci sono date e tutti i personaggi del racconto portano nomi di fantasia e si ricollegano a popoli e luoghi – Oradour sur Glane, Kragujevac, Srebrenica, Priština, Dresda, Hanoi, Marzabotto, Glina, ecc. –, che hanno vissuto e vivono tutti i massacri dell’eterno massacro che ha nome guerra. Purtroppo, spesso contro gli autori delle stragi di civili o non vengono emesse sentenze, o le sentenze sono scandalosamente indulgenti o ci sono amnistie che li rimettono in libertà. E ciò non fa che accentuare il sentimento di oltraggio ai morti. Il racconto allora segue le vicende di un vendicatore solitario che darà la caccia all’assassino che gli ha trucidato la moglie e il figlioletto”.

Una storia di vendetta?

“Desiderio di vendetta? Sì, assolutamente. Una storia in cui la vendetta ha un ruolo decisamente fondamentale. È la caccia a un uomo con il proposito di ammazzarne moglie e figlia”.

Che cosa l’ha spinta a scrivere questo racconto?

“Mai fatto un piano a tavolino, uno schema con la trama, roba così. Diciamo che il racconto è nato da un’immagine originaria, da una scheggia, da un frammento che ha svolto un ruolo germinale e che è uscito da un magma indistinto che mi portavo appresso da decenni, da brani letti a scuola nei libri, da tante narrazioni. Un brandello di memoria che trovava di volta in volta rispondenza nei tempi che correvano e che corrono, in atmosfere che vengono rinfocolate da ogni guerra”.

C’è qualche riferimento storico preciso alla vicenda da lei narrata?

“No, nelle mie intenzioni non cìè alcun riferimento storico preciso. Ma tutti gli elementi che mi sono venuti incontro erano già avvolti nella loro dimensione storica. Un racconto inattuale e altrettanto attuale. Direi che è una dimensione storica che non finisce mai. Basti pensare al Medio Oriente, alla storia infinita di ebrei e palestinesi. Forse è la stessa condizione umana. Con lo stravolgimento dei nomi ho optato per una realtà metastorica, quindi puramente letteraria. La storia offre il pretesto, lo spunto iniziale, ma la scrittura rielabora poi il contesto storico trasfigurandolo e rendendolo artificio letterario. Insomma la storia funziona soltanto da cornice intorno all’elaborazione fantastica”.

Un cambiamento radicale di tematiche il suo… Perché questa scelta?

“Solo a prima vista un cambiamento di rotta. Non è che mi allontani troppo dalle mie solite rivisitazioni dei ricordi del passato. Anche qui c’è la storia di un equilibrio spezzato, di ciò che era e non è più. Più che cambiamento di tematiche, è un cambiamento dell’ottica. Nei discorsi celebrativi ufficiali si evita la categoria dei bambini o si incorre in affermazioni generali che raramente tengono conto delle particolarità dei singoli. Io ho voluto soffermarmi su di un singolo bambino coinvolto in un fatto efferato, ed è quel fatto che mi ha spostato l’ottica. Svincolandomi da ogni schema precostituito, indipendentemente dalle rigide categorie che mi/ci sono state imposte da un tipo di educazione e che mi/ci perseguitano da una vita, ho cambiato angolazione e mi sono trovata, su basi diametralmente opposte, a fare i conti con ‘il dolore degli altri’, come direbbe Guido Crainz”.
Le pagine che descrivono il piano dell’attentato, sono brillanti e minuziose. Per la loro stesura ha compiuto delle ricerche?

“Non in modo particolare. Siamo costretti tutti quanti a rapportarci ogni giorno con il male che continuamente ci circonda, con la cronaca nera della televisione e dei giornali, con notizie il più delle volte terribili e intrise di una crudeltà inimmaginabile. Spunti ce ne sono ad ogni passo. Piuttosto il mio problema è di ordine lessicale. Lontana dall’insegnamento e dall’esercizio attivo della lingua, mi sfuggono le parole, tendono a farsi ectoplasmi, è una fatica riaciuffarle e riportarle indietro”.

Leggendo il racconto, il lettore si pone inevitabilmente la domanda se lei sia a favore dell’antica Legge del taglione, ossia quella più comunemente nota come il principio dell’occhio per occhio?

“Il punto è come noi reagiamo a una quotidianità che viene sconvolta dalla follia omicida, dal male assoluto. La vediamo tutti quanti come una spaventosa eccezione alla razionalità che ci sforziamo di perseguire e rimaniamo tutti quanti razionali? Credo si tratti di una questione di vicinanza o lontananza, ovverossia di concreto o astratto. È facile rimanere razionali se il male non ti colpisce direttamente, se è lontano, ed è altrettanto facile recuperare la propria natura primitiva e barbarica quando un feroce delitto colpisce i tuoi cari, quando il male si fa concreto nella tua vita. L’impunità dell’assassino può diventare un’ossessione per la vittima, può farlo ammalare, ammattire. Si può capire benissimo, senza condividerlo, lo stato d’animo di chi chiede ‘occhio per occhio, dente per dente’. Personalmente capisco molto di più il papà di Melania Rea che augura a Parolisi (sempre che sia lui l’assassino) ‘tutto il male possibile’ che non il papà, marito e nonno Carlo Castagna che immediatamente dopo la strage di Erba rilasciava le sue dichiarazioni di perdono per i coniugi assassini. Quest’ultimo, in un primo momento, mi era sembrato un folle che sragionava. Certo che se non si perdona è finita per tutti. Nei Vangeli, Matteo raccomanda di porgere l’altra guancia… Dove si va a finire in questo mondo se non ci si affida alla bontà e alla potenza di Dio o alla superiorità di una giustizia che trovi il suo fondamento in Cesare Beccaria? Si torna ai tempi della giungla e alla legge della foresta. Non resta più niente di buono per cui valga la pena di andare avanti. E tuttavia a me piaceva un sacco Charles Bronson nel ruolo di giustiziere della notte… Si ricollegava nella mia mente alle parole di mia nonna che davanti a un delitto efferato usava dire: ‘Quel bruto assassin, bisognassi farlo a tochi…’.”
Gianfranco Miksa

500 – Il Piccolo 26/07/11 Storie dell’Istria perduta nelle “Redini bianche” di Quarantotti Gambini
Storie dell’Istria perduta nelle “Redini bianche” di Quarantotti Gambini

LA COLLANA
LETTERATURA – TRENT’ANNI DOPO

Ritorna a oltre trent’anni dalla prima edizione il romanzo che venne ritrovato tra le carte dello scrittore, nato a Pisino, dopo la morte nel 1965

Viaggio nel Novecento con Guido Davico Bonino Si intitola semplicemente Novecento italiano. Ed è la collana, curata da Guido Davico Bonino, che Isbn Edizioni pubblica con un preciso intento. Quello, cioè, di recuperare per i lettori d’oggi alcuni ottimi libri che, pur pubblicati, sono stati dimenticati in fretta. E adesso non sono più reperibili sul mercato. A inaugurare la collana è stata “Nascita e morte della massaia” di Paola Masino. Ma si possono trovare anche “La vita intensa” di Massimo Bontempelli, “Gesù, fate luce” di Domenico Rea, “Lo sa il tonno” di Riccardo Bacchelli, “Esterina” di Libero Bigiaretti e quel gioiello che è “La dura spina” dello scrittore triestino, morto a Roma nel 2009, Renzo Rosso. di Alessandro Mezzena Lona Poteva mascherarsi dietro la finzione letteraria.
Inventare un nome diverso dal suo per il protagonista. Spostare le lancette del tempo. Ma quello che Pier Antonio Quarantotti Gambini non riusciva proprio a evitare, mentre scriveva il romanzo “Le redini bianche”, era pensare alla sua Istria perduta. Alla terra dov’era nato e da cui gli italiani erano dovuti scappare per non finire nelle foibe. A Pisino, a Capodistria, a Semedella dove andava a trascorrere le estati nella casa dei nonni materni. Quel romanzo adesso, a distanza di oltre trent’anni dall’edizione Einaudi, assomiglia a una finestra spalancata sul mondo di Pier Antonio Quarantotti Gambini. «La più preziosa anta del possente polittico» che forma “Gli anni ciechi”, come annota Guido Davico Bonino nella nuova edizione delle “Redini bianche” pubblicata da Isbn Edizioni (pagg. 248, euro 15) nella collana “Novecento italiano”, con una nota biografica curata da Daniela Picamus. Il manoscritto delle “Redini bianche”
venne trovato tra le carte di Quarantotti Gambini quando un infarto fermò per sempre il suo cuore, il 22 aprile del 1965. Uscì in edizione Einaudi due anni più tardi e venne accorpato soltanto in seguito in quel “polittico”
degli “Anni ciechi” composto anche da “L’amore di Lupo”, “Il cavallo Tripoli, “I giochi di Norma”. Pochi sanno che a firmare il risvolto anonimo di copertina del volume einaudiano era stato Italo Calvino, come racconta Davico Bonino nella sua postfazione dedicata al «torinese di Trieste» Claudio Magris. Calvino, che non era certo un lettore editoriale né tenero né abituato a roboanti complimenti, aveva intuito subito la forza di quel romanzo. Sintetizzando in poche righe il nocciolo della storia, il fascino e il tormento di una trama intrisa di ricordi, nostalgia, sgomento per la sorte toccata alla terra istriana dopo la Seconda guerra mondiale. «In uno scenario di caseggiati popolari – scriveva Calvino -, animato da comitive di bagnanti, la vecchia casa bianca sul declivio della collina, tra i glicini, diviene il simbolo di un mondo scomparso per sempre, che non è sopravvissuto alla tragedia della guerra, all’esodo dei pescatori e dei contadini». Quel mondo rivive in due affreschi potenti che contrappuntano “Le redini bianche”
come i movimenti distinti, ma intimamente collegati tra loro, di una sinfonia. In “Tre bandiere”, Quarantotti Gambini porta subito in scena il suo alter ego. Paolo de Brionesi Amidei, «un uomo alto, e abbronzato in viso, tra i quaranta e i cinquant’anni, si sarebbe detto», ritorna a vedere l’Istria, Capodistria, la Semedella della sua infanzia, avvicinandosi dal mare a bordo del Valmarino. A fargli compagnia sono alcuni marinai chioggiotti e la voce dissonante di uno sconosciuto, un «grassone», che dipinge in poche parole il nuovo ordine stabilito in quella terra: «Tuto soborgo in costruzion… Qua gnente più signori… ’Desso tuto xe proprietà del popolo. Semo in comunismo. No se lassemo più sfrutar…». Parole taglienti come lame. Pesanti come pietre sul cuore. Che innescano un potente cortocircuito narrativo. E lasciano che la fantasia di Quarantotti Gambini, il ricordo mascherato da esercizio letterario valichi il confine del tempo e lo riporti alle estati della sua infanzia. Nasce così nelle “Redini bianche”
il personaggio di Paolo bambino. Un ometto di quattro anni che vive con gli occhi, attraverso le parole e le storie che sente nei discorsi degli adulti, la trasformazione rapidissima di quel piccolo, vecchio mondo. L’arrivo del telefono, di un antenato del giradischi, della prima macchina che corre senza essere attaccata ai cavalli, sono solo i messaggeri del futuro che incalza. E il lettore si trova catapultato in un passato che sembra lontanissimo, ma che in realtà rivive tra le pagine in immagini dalla nitidezza strepitosa. Che Quarantotti Gambini estrae dal suo cilindro magico di narratore con onestà e rimpianto.

501 – La Voce del Popolo 25/07/11 Fiume: Un gioiello d’ingegneria militare da recuperare e valorizzare
NE PARLA VLADIMIR TONIĆ, RICERCATORE SULLE ORME DEL VALLO ALPINO DEL LITTORIO, ALLE PORTE DI FIUME
Un gioiello d’ingegneria militare da recuperare e valorizzare
FIUME – Un capolavoro architettonico, alla pari di altre costruzioni ben più conosciute, che interessano il centro storico di Fiume: è il Vallo Alpino del Littorio, che, con le “Linee Mario Angheben I e II”, si conclude alle porte del capoluogo quarnerino. Tolta ogni connotazione politica e con dovuto il rispetto per i caduti di tutte le parti, è un gioiello dell’ingegneria militare italiana. Di che cosa si tratta? Il Vallo Alpino del Littorio è un sistema di fortificazioni formato da opere di difesa (bunker) voluto da Mussolini e costruito prima della Seconda guerra mondiale per proteggere il confine italiano dai Paesi limitrofi, cioè Francia, Svizzera, Austria e Jugoslavia. Nel territorio di Croazia e Slovenia il Vallo si dirama lungo 220 chilometri e comprende 208 fortificazioni. La sua parte occidentale inizia a Genova mentre quell’orientale termina proprio a Fiume, con circa 30 fortificazioni, bunker e casamatte collegate tra loro attraverso un sistema sotterraneo di corridoi.
Una fortezza inespugnabile, sotto ogni aspetto, tanto che l’allora Armata Popolare Jugoslava (APJ), dopo migliaia di vite perse nel tentativo di conquistarla, decise semplicemente di aggirarla, proseguendo così verso Trieste. Dell’argomento si è occupato pure Vladimir Tonić, che di recente ha pubblicato l’opera “Tragom ‘Alpskog bedema’ u Rijeci i Hrvatskoj” (“Alla ricerca del ‘Vallo Alpino’ a Fiume e in Croazia”) per i tipi dell’associazione “Stato Libero di Fiume” (“Slobodna Država Rijeka”). Tonić, di professione ingegnere navale, non è nuovo a opere del genere. Ha già portato a termine ricerche di carattere simile in collaborazione con J. Kaufmann, negli USA (“Fortress Third Reich”) e, a quattro mani con A. Jankovič-Potočnik, il libro “Rupnikova linija in alpski zid”. Suoi disegni di fortificazioni italiane e jugoslave sono usciti su riviste specializzate in Francia, Slovenia e Gran Bretagna. Una ricerca di Tonić sulle fortificazioni italiane nel territorio di Zara ha visto la luce nel 2009 nel Vermont.
Quest’ultima sua fatica è supportata da immagini, progetti, disegni, cartine, fotografie e attenti testi, nei quali espone l’argomento delle fortezze italiane e tedesche nei dintorni di Fiume e del loro ruolo nella II GM e in particolare nel quadro della Battaglia per Fiume.
Come nasce il suo interesse per questo argomento?
“Il libro è il risultato di una ricerca iniziata circa dieci anni fa per pura curiosità e poi sfociata in una vera e propria passione. Un’ulteriore spinta è arrivata dalla consapevolezza che le fortificazioni sono un argomento poco conosciuto dalla popolazione fiumana. Non è mia intenzione presentarmi come un eccellente ricercatore. Voglio piuttosto spostare l’attenzione su ciò che la città possiede: un ricco ed eccezionale complesso fortificato, sito a pochi chilometri dal centro abitato. A mio avviso rappresenta un’interessante materia di studio e un patrimonio storico-culturale da sfruttare anche a livello turistico. A conferma di quanto sia sconosciuto è che prima di incontrare Nenad Labus, redattore del libro, ho tentato senza successo di presentare l’opera a vari editori che purtroppo hanno declinato la proposta”.
Che cosa ci racconta di questa parte del Vallo Alpino del Littorio?
“Le fortificazioni fiumane del Vallo Alpino si trovano in prossimità del vecchio confine tra il Regno d’Italia e quello di Jugoslavia. Mussolini e l’Italia, ancora memori della spaventosa carneficina della Grande Guerra, diedero inizio a un’imponente opera di fortificazione, a partire dagli anni Trenta fino al 1942, e poi portata avanti anche dai tedeschi nel 1943, periodo in cui la Venezia Giulia, intesa come vecchia provincia dell’Impero asburgico del Litorale adriatico (Adriatische Kustenland), a tutti gli effetti, venne annessa al Terzo Reich. La linea che c’interessa direttamente è quella intitolata al patriota fiumano Mario Angheben, che disertò dall’esercito austroungarico per combattere a favore dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Il complesso, situato a Santa Caterina, si dirama tra fortificazioni esterne, principalmente a uso di mitraglia e cannoni di piccolo calibro, a quelle interne con spazi, camere e corridoi che hanno una lunghezza di circa 3 chilometri. All’interno troviamo cucine, servizi igienici, depositi di munizioni, contenitori per l’acqua, centraline telefoniche, generatori di corrente, depuratori dell’aria e sistemi per la protezione di gas tossici. Nelle camere ancora oggi si possono trovare munizioni e averi personali dei soldati impegnati in esse, come lettere, giornali e altre cose”.
Ci sono dati precisi per quanto riguarda le perdite umane?
“È un’infrastruttura cui sono legate tantissime interpretazioni storiche, a partire da quelle leggendarie, che ci venivano inculcate a scuola e nelle quali la quarta divisione dell’APJ subì in queste zone poche e irrilevanti perdite. Dall’altra parte, l’esercito fascista parlava di seimila morti tra i partigiani. Sono dati che sono stati intenzionalmente omessi e quindi non possediamo alcun documento concreto. Neanche quelli dell’Ossario a Cosala, dove sono stati seppelliti i partigiani caduti nel circondario, sono attendibili. La verità sta in mezzo. Oggidì sappiamo con certezza che le ‘Linee Mario Angheben I e II’, non furono mai conquistate. Hanno quindi completamente assolto al loro scopo: fermare qualsiasi attacco nemico”.
Quali sono le conclusioni cui è arrivato nella sua ricerca?
“Queste linee ebbero un fattore determinante nelle battaglie ai confini dell’Alto Adriatico orientale. L’Armata jugoslava, data l’inespugnabilità delle fortificazioni, optò per la manovra militare dell’aggiramento, proseguendo verso Trieste. Quella di Fiume è stata per molti aspetti l’ultima grande battaglia della II GM. Berlino era già in mano agli Alleati e ai Sovietici. La fine del conflitto era imminente ed era chiaro come sarebbe andata a finire. L’obiettivo dell’esercito che era qui stanziato, composto da soldati tedeschi e italiani, era di respingere la minaccia del comunismo e di consegnare le terre e sé stessi agli alleati americani. Ciò che portò alla caduta e alla ritirata delle unità fasciste e naziste dalla zona fu il fatto di essere stati tagliati fuori dagli approvvigionamenti. Decisiva fu poi la decisione di Odilo Globocnik di scappare, abbandonando la direzione dell’OZAK (Zona d’operazioni del Litorale adriatico) di Trieste che aveva come compito strategico la difesa dei confini meridionali del Reich”.
Com’è lo stato di questi bunker?
“I rifugi – proprio come tante altre cose gli eserciti italiano e tedesco di lasciarono dietro – sono stati demoliti alla fine della guerra dai partigiani, oppure fatti saltare in aria nel dopoguerra o durante l’epoca della guerra fredda. Molte cupole sono state fatte brillare anche con lo scopo di ricavarne l’acciaio. Ci sono poi anche semplici atti vandalici, scatenati per lo più come una sorta di vendetta per quei dolorosi simboli del ventennio fascista. Nonostante ciò, tante opere giacciono per lo più intatte in territorio croato e anche in quello sloveno. A mio avviso è possibile utilizzare l’intero complesso a scopi turistici. I nostri vicini sloveni hanno saputo cogliere la palla al balzo e hanno ottenuto finanziamenti europei. Nel Comune di Pivka-San Pietro del Carso, è situato, infatti, il Parco di storia militare, nel quale vi è pure il sentiero delle fortificazioni del Vallo Alpino orientale. Le fortificazioni in territorio sloveno sono in condizioni peggiori di quelle che si trovano in Croazia. Ciò nonostante i turisti pagano il biglietto per visitarle”.
Gianfranco Miksa

502 – Il Piccolo 29/07/11 Trieste – Immagini ritrovate dell’Istria nel Ventennio, al Museo della civiltà istriana un’ampia mostra fotografica sulla vita quotidiana negli anni tra il 1920 e il 1940
Immagini ritrovate dell’Istria nel Ventennio

Al Museo della civiltà istriana un’ampia mostra fotografica sulla vita quotidiana negli anni tra il 1920 e il 1940

di Pietro Spirito

TRIESTE Si parte da Muggia, dall’edificio del Dispensario tubercolare, fotografato durante lo svolgimento di una cerimonia. La didascalia dice che Muggia è l’ultimo lembo di terra istriana a rimanere in territorio italiano, mentre nell’immagine si vedono alcuni balilla schierati di spalle, autorità in uniforme fascista, e la data dello scatto: 1939. Si finisce con una veduta di Neresine, a Lussino, una foto scattata nel 1930 in quella che allora era la Piazza Vittorio Emanuele III, la classica veduta di un luogo pubblico con i passanti immobili, che guardano tutti l’obiettivo del fotografo, perché allora scattare una fotografia in ambiente urbano, in mezzo alla gente, era un piccolo avvenimento di cui ognuno era consapevole, e la privacy non si sapeva cos’era. In mezzo altre cento fotografie che rappresentano un ideale viaggio, nel tempo e nello spazio, nell’Istria degli anni fra il 1920 e il 1940, il Ventennio che portò l’Italia al disastro e alla perdita delle sue terre.
È un viaggio della memoria, e della storia, allestito in una bella mostra a cura dell’Irci e dell’Unione dgli istriani al Civico Museo della civilità istriana, fiumana e dalmata di via Torino 8 a Trieste (aperta fino al 7 agosto, orari: da lunedì a sabato 10-12.30 e 16.18.30, domenica 10-13), esposizione accompagnata dall’elegante catalogo curato da Piero Delbello (Ed. Italo Svevo, pagg. 183, s.i.p.) e intolato appunto “100 x Istria – Un percorso fotografico nella nostra provincia 1920-1940”. L’idea è quella di un itinerario geografico da nord a sud della penisola: «Come se il tempo non fosse passato – scrive Piero Delbello nella prefazione al catalogo – si è pensato di creare un percorso e di viaggiare con le immagini in quelle cittadine, nelle borgate, nei paesi, nelle ville…nel quotidiano di festa e di lavoro».
Ed ecco allora i campi da tennis dello stabilimento balneare Lido di San Nicolò nel 1938, ecco i bagnanti all’hotel Porto Apollo di Isola d’Istria nel ’28, ed ecco la folla alla benedizione della croce monumentale di Strugnano nel ’24. E ancora la banda dell’Opera nazionale dopolavoro di Portorose, l’albergo Stella Maris di Umago nel ’33, e poi l’inverno innevato del ’29 a Pinguente, la loggia di Grisignana, i contadini di Visignano, le miniere di Arsia, la rotonda sul mare alle isole Brioni nel ’32, e giù fino a Pola, e poi Fiume e le isole, tra motonavi e pescatori. Immagini ordinate secondo criteri cronologico-spaziali senza pretesa di sintesi filologica ma che nell’insieme ricuciono la mappa visiva, o almeno una sua parte significativa, di un paesaggio consegnato alla storia ma che è parte integrante dell’orizzonte comune in questa marca di confine.
E a osservarle in sequenza, queste immagini, viene in mente ciò che osservò Roland Barthes a proposito del potere evocativio della fotografia: «La Fotografia – scrisse Barthes – non dice (per forza) ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato». Una sottigliezza determinante, perché davanti a una foto, la coscienza non prende necessariamente «la via nostalgica del ricordo (quante fotografie sono al di fuori del tempo individuale) ma (…) essa prende la via della certezza». Ogni fotografia certifica l’esistenza di un evento, e così facendo lo consegna alla storia e alla memoria collettiva. Come fa questa mostra.

503 – La Voce del Popolo 23/07/11 Bogliuno, un paese quasi deserto – Visita a un paesotto suggestivo compresso sulla cima di un colle
a cura di Mario Schiavato
VISITA A UN PAESOTTO SUGGESTIVO COMPRESSO SULLA CIMA DI UN COLLE
Bogliuno, un paese quasi deserto
L’incontro più suggestivo con Bogliuno (Boljun in croato), lo si ha venendo da sud, cioè viaggiando sulla strada che congiunge Vozilići a Vragna. Superati i paesi della Valdarsa come Klosar, Purgarija, Sušnjevica e Katun, dove, si dice, è possibile sentire ancora qualcuno parlare il romeno, si prosegue in salita lungo la vasta balza calcarea oltre la quale si estende l’ampia piana di quello che fu l’antico alveo del prosciugato lago di Cepich. I suoi campi sono oggi praticamente abbandonati, invasi dall’erba e segnati da qualche filare di pioppi. Sullo sfondo, a est la lunga verde galoppata delle gobbe del Monte Maggiore e, a settentrione, l’abitato raccolto su una stretta piattaforma di roccia arenaria posta sulla sommità di una balza incisa, per tre quarti del suo perimetro, da profonde erosioni. Il paese appare così quasi compresso sulla cima del colle. Da sopra i tetti delle modeste abitazioni che sembrano trovare a stento un po’ di spazio su quel colmo, svetta tozzo il campanile e soprattutto spiccano le decrepite mura giallo-brune dell’antico castello.
Le origini romane
Il nome di Bogliuno, secondo il de Franceschi, sarebbe una tarda corruzione slava del latino volgare di Bagnoli (Balneolum). Infatti, così viene citato nei documenti fino al XV secolo. Poi questo nome, nelle diverse scritture soprattutto tedesche, si trovò man mano alterato in Bagnul, Vanyol, Vinol, Vinal, infine addirittura in Finale, il che lo faceva in certo modo corrispondere a quel Finale situato sulla frontiera italiana occidentale. Comunque, le sue origini romane sono confermate da diversi rinvenimenti archeologici, tra cui un cippo sepolcrale dedicato a un tale Caio Valerio Prisco, un commerciante di Aquileia, cippo che secondo le informazioni ricevute avrebbe dovuto trovarsi sotto degli alberi all’uscita del paese ma che noi, nonostante le solerti ricerche, non siamo riusciti a scovare.
Una vita… cittadina e libera
Da vari documenti appare che qui, per diversi secoli, fiorì una vita di tipo diciamo “cittadino”, in netto contrasto con le altre strutture, prettamente feudali, degli insediamenti esistenti lungo la vallata dell’Arsa. Tutto intorno infatti, sparsi lungo la valle, sorgevano quei minacciosi e tristi castelli nei quali i feudatari d’oltralpe spadroneggiavano a loro piacimento. I miseri contadini dei manieri di San Martino, di Passo, di Lupogliano, di Cosliacco, di Chersano – per non dire di quello di Vragna dove il padrone murò viva la moglie la quale durante una sua assenza per una guerra in Pannonia gli aveva partorito un figlio che egli, per non aver fatto bene i calcoli, ritenne non suo – vivevano in uno stato di semischiavitù mentre tra le case di Bogliuno, nelle sue strette calli, nelle sue piazzette si continuava a respirare un’aria certamente più libera. Si presume, infatti, che fosse l’unico centro in un certo modo “borghese” della vallata nel quale fioriva un importante commercio e i servi della gleba del contado potevano qui scambiare i pochi beni lasciati loro dagli avidi padroni. Il borgo per lungo tempo dipese dai patriarchi di Aquileia. Appena alla fine del XIV secolo venne dato in feudo a laici di varia origine e fu da allora che ebbe inizio un frequente passaggio di proprietà e potere tra feudatari e signorotti seguendo in tal modo la sorte degli altrui manieri della zona.
Gli «eredi della domenica»
All’inizio della salita che porta in centro, a destra su di un breve pianoro, si trova una vecchia chiesetta restaurata di recente. Non ha forse valore artistico ma fa parte del paesaggio. A nord, vecchie abitazioni in parte diroccate, affiancano la strada lastricata che entra nell’abitato per attraversarlo piuttosto tortuosamente da sud a nord in tutta la sua lunghezza. Di questi tempi Bogliuno è quasi vuota, abbandonata, nonostante parecchie case siano state e vengano rimesse in sesto dai cosiddetti “eredi della domenica”. Di recente è stata pure restaurata la chiesa dei Santi Cosma e Damiano, risalente probabilmente ai secoli XIII-XIV, evidentemente risultato di due costruzioni sovrapposte, in quanto gli elementi stilistici della costruzione più bassa denotano un’arte più primitiva. Sul fondo dell’abside trovò allora posto un altare barocco di fine fattura mentre di recente sono stati scoperti anche degli affreschi, ma se non si provvederà a una loro pronta conservazione, anche questi resti pittorici spariranno nel nulla.
Accanto alla chiesa, la loggia spicca per le sue caratteristiche. È formata da quattro archi con un corpo sovrastante, nel quale sono ricavate quattro rozze finestre. Sul fianco destro una scalinata porta al piano superiore. La costruzione nell’insieme risulta sgraziata e informe. I possenti massi con i quali è stata edificata sembrano voler raccontare antiche storie.
«Una foggia di vestire molto caratteristica»
Degli antichi modi di vestire della sua gente, così scrive Giuseppe Caprin nel suo volume “Alpi Giulie” (Trieste 1895): “Alcuni villaggi della Val d’Arsa (dunque anche Bogliuno) conservano ancor oggi una foggia di vestire molto caratteristica e propria che però va pian piano scomparendo: cappello nero con tese larghe ed orizzontali, per i giovani un berrettino minuscolo, giacca e paletot di panno caffè scuro o nero, calzoni corti, calze bianche di lana grossa, scarpe basse con fibbia, panciotto colorato d’ordinario scarlatto, o rosso e giallo, o rosso e blu. Dallo sparato usciva il pettorale della camicia inamidata e dalle tasche laterali della giacca si vedevano le cocche di due fazzoletti a colori chiassosi. Le donne portano ancora un vestito di panno di lana scuro, corto, a mezza gamba; sopra questo un camiciotto ad ampie maniche raccolto sopra i lombi da una larga cintura, la quale nelle ricche ha sul davanti una grossa e bella fibbia d’argento. La calza è bianca, la scarpettina bassa, in capo un fazzoletto a colori intrecciato senza nodo sotto il mento in modo che i due lembi rialzati s’inseriscono fra la guancia e il fazzoletto; così tutto il capo resta coperto e non si vede che la sola faccia circondata come dal soggolo delle monachelle”.
Un piacevole disordine
Imboccando alla fine della nostra visita una stretta viuzza che s’inoltra tra le curiose costruzioni, ci portiamo verso il centro del paese. Sia le calli che le case sono fuse in un quasi piacevole disordine. Evidentemente qui ognuno costruì come gli parve giusto e comodo. Così ballatoi con balaustra o ringhiere ornano gli edifici e chiudono gli androni. I camini si ergono alti sopra le sporgenze dei focolari, incorporati nelle pareti delle cucine. Le finestre sono di diversa fattura e grandezza – persino delle bifore bizantine abbiamo notato su una facciata – non poche stranamente deformi. Anche qualche stalla e qualche letamaio diffondono odori che per la verità avevamo dimenticato. Gli scorci che questo insieme offre ai visitatori sono realmente molto pittoreschi ed è motivo di sorpresa che ancora nessun artista si sia ispirato a questi scenari. Comunque, nonostante i parecchi restauri, è doloroso osservare che parecchie abitazioni sono deserte: le imposte semidivelte si staccano dai cardini, le ante con i vetri infranti sono pericolanti sui telai scoloriti che svelano il buio senza vita dell’interno. Un senso di pena ci prende e molto volentieri ci fermiamo davanti ad una che pare un po’ meglio conservata delle altre. Davanti la porta, sentadi sul scagno al’ombra, due vecchi, probabilmente marito e moglie, ambedue con un bastone tra le mani ricambiano il nostro saluto e sembra quasi vogliano confessarsi in un dialetto mezzo croato e mezzo italiano.
Još malo e tuti i muri i cascarà…
Dice l’uomo: – Aj me meni! Ste turisti forsi? No xe gnente de veder in sto naše jadno misto. Solo veci e mižerja!
– Siamo arrivati per poter vedere il castello…
– Ah, ja, dvorac. Ogni tanto drento i fa anca feste. Ma još malo e no sarà più gnente… i on će se srušit, i muri i cascarà, vero da…
La donna ridacchiò. Poi si mise a dire le sue in un dialetto più veneto:
– Noi semo veci. Quasi tuti xe veci a Boljun. I giovani scampa. Pochi ghe ne xe restadi. De cossa i vivaria? De ‘sta poca tera e do vache? Nostro fiol volessi far qualcosa, sicuro ch’el volarla. Quella roba che i ciama agroturizma me par. Insoma verzer la sua e altre case ai foresti. Vin ghe ne xe, un poco, ma bon. Anche formaggio de pegora, verdura, boni capuzzi e anche pomidori grossi come un pugno. Ća ja znam! Xe duro, nissun vol far credito… I promete e i promete e gnente!…
– Eppure da quel che abbiamo visto, qualche cosa si è fatta, qualche casa è stata rimessa a nuovo.
– Ma ja, xe quei che lavorava in Arsia, ad Albona, che i strussia a Rabac nei alberghi, anche a Fiume o a Pola, magari in Germania e che i vien a casa de veci o ala domenica o per le ferie. Xe lori che ga i soldi per giustarle le case. Qua xe aria bona. E pase, fin tropa pase… Anche se magari el pan bisogna farselo e cusinarselo da soli, sì, perché cari mii tropo speso i se dimentica de portarnelo…
Le risate di sior Frane
Per continuare il discorso dobbiamo accettare l’invito di entrare in casa per bere un bicchiere di vino rosso, un po’ acido per la verità, ma ristoratore. O un cafetin fato sula vecia cogoma. Le scale pulite ci portano in una cucina bianca, lucida di calce fresca, con tanto di focolare. La cappa è colma di scodelle variopinte. Le vecchie sedie impagliate messe attorno al tavolo sono un tantino traballanti. Comunque regna qui un’altra atmosfera, più distesa e conciliante anche per le risate del sior Frane, che a tutti i costi ci fa accomodare per poterci così narrare le sue vecchie barzellette. Ed i suoi tantissimi ricordi. Soprattutto di quando alla domenica nell’osteria arrivava el Vice de Paz, che saria Vincenzo del paese de Passo, con la fisarmonica triestina e si ballava e si cantava.
– Vero Maria? Savè quela de… la mula de Parenso, ga meso su bottega, de tuto la vendeva…
Cominciano a cantare el sior Frane e la siora Maria e, logicamente, noi dobbiamo fare il… coro! Un coro allegro in un paese quasi deserto come Bogliuno!

504 – Il Piccolo 25/07/11 Emilio Rigatti: Quel viaggio in kayak sognato tutto l’inverno sulla rotta verso Zara
Quel viaggio in kayak sognato tutto l’inverno sulla rotta verso Zara

Emilio Rigatti, nato a Gorizia nel 1954, ciclista, giornalista e scrittore, insegnante di scuola media dal 1983, per otto anni in Colombia come cooperante nel settore educativo. Tra i suoi libri, pubblicati soprattutto da Ediciclo, “La strada per Istanbul” (2002, sul viaggio di 2116 chilometri in bicicletta da Ruda a Istanbul assieme ad Altan e Paolo Rumiz), “Minima pedalia” (2004), “Yo no soy gringo” (2005), “Italia fuorirotta. Viaggio a pedali attraverso la Penisola del tesoro” (2007), “DalmaziaDalmazia! Viaggio sentimentale da Trieste alle Bocche di Cattaro” (2009).

Lo scrittore goriziano Emilio Rigatti ha portato a termine una nuova avventura a bordo del suo kayak, “Da Trieste in zò”, ovvero da Trieste in giù fino a Zara, in fondo alla Dalmazia. Un viaggio a tappe che racconterà in agosto con un reportage sul “Piccolo”. Intanto ha scritto questo articolo sui preparativi e sul progetto di navigazione.

di EMILIO RIGATTI

Se l’immaginazione non ha gli anticorpi giusti, il virus del viaggio può scatenare il contagio. Il contatto distratto con una foto, con una schermata di google earth, con un vecchio progetto abbandonato possono essere fatali. Non ci si può lavare le mani, disinfettarsi non serve. I primi sintomi possono essere impercettibili, come il ripresentarsi del nome di una città, di una rotta, magari scacciate con un «no, lasciamo perdere». L’anno prossimo, magari: l’anno prossimo è un immane contenitore di viaggi non fatti. Lasciamo perdere, diciamo, ma poi quel nome, quella rotta, accendono il desiderio senza preavviso, come la voglia di sigarette che aggredisce il fumatore che cerca di smettere. Torna anche in sogno, il viaggio sognato, come il bubbone di don Rodrigo. Ci svegliamo sudati e la rotta è lì, nel buio, che ci guarda. Occhi fosforescenti di gatto Cheshire, striscia di zolfanello da una pupilla all’altra di un desiderio geografico acquattato come un felino. Non sparisce col risveglio, anzi, sentiamo che pulsa come una vena in allarme. Miao, diceva il gatto. Sai cosa voleva dire? Parti, bello, è l’unica cura. Miao.

In realtà questo viaggio l’ho già fatto. In un kayak stipato di tenda, viveri, acqua, fornello, carte, libri e diari di viaggio. L’ho fatto cento volte, quest’anno, esplorando cale e calette dell’Istria e delle isole dalmate con Google Earth. Ho tracciato rotte, immaginato pericoli, calme e riposi del marinaio, su scogli abitati solo da gabbiani e, per un’ora, da me. Quel viaggio l’ho già fatto, l’ho vissuto per tutto l’inverno. In segreto. Potrei scriverne un diario. La malattia, il virus fatto meridiani e paralleli, si sconta preparandolo. E la sua cura è una sola, miracolosa, istantanea: il primo colpo di pagaia che affonderà nell’Adriatico, davanti a Piazza dell’Unità a Trieste, spingendo la prua del kayak la prua in direzione di Muggia. Non ha una meta, ma un desiderio che fa da polo magnetico. Il desiderio si chiama Zara. Ma basta la buona ventura di scendere la costa istriana per passare a Cherso, poi a Lussino, poi si vedrà. Se il desiderio di quest’anno si chiama Zara, non vuol dire che ci devo arrivare. Arrivarci è secondario e soprattutto improbabile. Ma che parta, questo è sicuro, magari per naufragare a Isola d’Istria e chiudere l’odissea davanti a un piatto di scampi in busara… Il viaggio potrebbe chiamarsi: «Da Trieste in zò…». Quanto in zò, vedremo. Il coraggio è poco, la meta è flessibile, la volontà di panna. Detto questo, parto.

Mi rendo conto che ci vuole un kayak più lungo e più marino di quello che ho. L’occasione arriva. E’ un 526 Sea Kayak Design, usato ma come nuovo, un buon prezzo e una tenuta di mare che mi conforta. Tre gavoni stagnissimi, deriva mobile e pure l’asta per la bandierina. È un progetto di Raymond Varraud, un signore franco-romano che fuma la pipa e che, se avesse i baffi, potrebbe fare Maigret. Una domenica prendo una sventolata di bora a 30 nodi e qualche giorno dopo, tornando da Miramare con Riccardo Pittia, il mio istruttore del Canoa Kayak Friuli, sperimento un mare traverso di libeccio. Forza tre-quattro, dice Riccardo, e non ti sei ribaltato! Per poco, ma è vero. È un test che mi convince che è la barca giusta. Ma i soldi sono pochi, quest’anno, e l’unico cache che ho sottomano è quello dei libri in conto vendita che mi dà l’editore per vendere alle presentazioni dei miei libri. Pago con quelli, poi al ritorno si vedrà, faremo patta coi diritti d’autore che mi devi, cent più cent meno. Insomma, Starbuck II è mio. Poi, gli acquisti, in affanno vorticoso. GPS, VHF, corde, moschettoni, colla, attrezzi, carte, fornello, i razzi di segnalazione, un carrello smontabile. Sì, perché la barca carica non si trasporta a mano, ci vogliono le ruote. Me lo costruisce Luciano Belloni, una persona che non conosco che trovo sul web, e me lo spedisce a casa. Perfetto: riesco a incastrarlo tra la pedaliera e la paratia stagna del gavone di prua. Altro spazio salvato.
Nevio Segatti, postino e falegname in pensione, in arte Bepo Marangon, mi sistema la bussola, mi aiuta a preparare un rullo da sbarco con le guaine in plastica dei cavi elettrici. Poi, l’avventura dello stivaggio. Passo ore al Villaggio del Pescatore a cambiare posto alle sacche stagne, a rubare centimetri cubi inventando un puzzle di cui disegno e cambio i pezzi in continuazione. Pongo attenzione a impermeabilizzare il computer e tutte le diavolerie per ricaricare tutto il mediaworld che mi tiro dietro: la lampada frontale, il cellulare, il GPS, il notebook. Ho anche una radio di bordo – un VHF – per ascoltare i bollettini nautici e, se fosse necessario, per accedere al Canale 16, quello dei soccorsi. Perdo ore a Trieste per avere la licenza d’uso delle frequenze prima di partire.
Imparo le formule: il Myday, il Pan Pan, il modo di spostarmi sui vari canali. Infine, un paio di uscite a pieno carico con gli amici del CKF che mi danno una mano in tutto: prove di appoggio, eskimo, il rientro in barca con la pagaia e il galleggiante che si infila a una pala per usarla come bilanciere e punto di appoggio per risalire dopo un ribaltamento e un eskimo andato a vuoto. Ho tutto, funziona tutto, ma sono esausto. Ho un po’ di strizza, perché no? Comunque un viaggio, in questi mesi, l’ho già fatto. Potrei anche non partire. Ma per attivarlo davvero, il viaggio, bisogna riavviarlo come con i programmi dei computer. E per farlo bisogna cliccare sull’icona con la pagaia. Il giorno?, parto da Trieste. E poi: in zò, come da non-programma

La Mailing List Histria ha il piacere di inviarVi periodicamente una minirassegna stampa sugli avvenimenti più importanti che interessano gli Esuli e le C.I. dell’ Istria, Fiume e Dalmazia, nonché le relazioni dell’Italia con la Croazia e Slovenia.
Si ringrazia per la collaborazione l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia di Gorizia e l’Università Popolare di Trieste
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
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