Rassegna Stampa Mailing List Histria
Sommario N° 782 – 03 Luglio 2011
424 – CDM Arcipelago Adriatico 28/06/11 Renzo Codarin, riconfermato solo da alcuni giorni alla Presidenza della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati (Rosanna Turcinovich Giuricin)
425 – L’Arena di Pola 30/06/11 Siamo tornati a Pola (Silvio Mazzaroli)
426 – La Voce del popolo 24/06/11 E & R – Il commovente ritorno degli esuli fiumani alla loro città per San Vito, Modesto e Crescenzia (Roberto Palisca)
427 – Il Piccolo 01/07/11 Intervista – l’ambasciatore Pietromarchi: «I rapporti fra Italia e Slovenia? Ottimi, dopo anni non eccelsi» (Pier Paolo Garofalo)
428 – La Voce del Popolo 24/06/11 La dott.ssa Paola Cogliandro nuovo console d’Italia a Spalato (Dario Saftich)
429 – CDM Arcipelago Adriatico 27/06/11 Il professor Cronia definito da Pahor un croato italianizzato – Franco Luxardo controbatte e pubblica a confutazione un saggio di Tagliavini (Franco Luxardo)
430 – La Stampa 15/06/11 Lettere al giornale: Missoni non è croato ma dalmata italiano (Franco Luxardo)
431 – Il Giornale 24/06/11 Pescara – Processo a D’Annunzio: genio o incosciente? (Matteo Sacchi)
432 – Corriere della Sera 30/06/11 Il Vittoriale di Gardone : Addio «Museo della Guerra», ora sarà dedicato a «d’Annunzio eroe» (Marisa Fumagalli)
433 – La Voce del Popolo 02/07/11 Del si’, del da, dello ja – Poliglotti per forza (Milan Rakovac)
434 – Messaggero Veneto 28/06/11 Gorizia – Quel giorno del ’91 alla Casa Rossa – Jugoslavia in frantumi e alla Casa Rossa fu una battaglia lampo (Pietro Oleotto)
435 – Avvenire 24/06/11 Anniversari – Jugoslavia, un sogno mancato (Vittorio Filippi)
436 – Il Piccolo 29/06/11 «Si stava meglio quando c’era Tito» – Sondaggio nella ex Jugoslavia 20 anni dopo la dissoluzione. Sloveni, croati e serbi pronti a una nuova “collaborazione” (Azra Nuhefendic)
437 – Corriere della Sera Veneto 01/07/11 Gianfranco Ivancich: Da Venezia agli Usa «Io, l’unico italiano al funerale di Ernest Hemingway» (Gianni Moriani)
438 – Il Piccolo 26/06/11 Jergovic: «Dall’esilio non si ritorna», lo scrittore bosniaco ha ricevuto il Premio intitolato a Tomizza (Elisabetta d’Ermè)
A cura di Stefano Bombardieri
Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti :
https://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arcipelagoadriatico.it/
424 – CDM Arcipelago Adriatico 28/06/11 Renzo Codarin, riconfermato solo da alcuni giorni alla Presidenza della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati
Renzo Codarin: il nuovo clima ci rende più forti
Riconfermato solo da alcuni giorni alla Presidenza della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati, Renzo Codarin si appresta ad intraprendere un cammino che coniuga tradizione ed innovazione.
“Mi è stato chiesto di continuare a portare il mio contributo per chiudere un processo iniziato insieme qualche anno fa – rivela – con il Giorno del Ricordo divenuto Legge e poi, soprattutto, con i tavoli di concertazione con il Governo. In effetti all’interno della Federazione si è lavorato in grande sintonia”.
Ed è proprio questo spirito che s’intende reiterare per “cavalcare” un momento positivo, di profondo cambiamento del clima stesso indotto da nuove dinamiche europee. La disattenzione che per tanto tempo aveva caratterizzato il rapporto con le problematiche di un popolo sparso, cambia registro. Anche nel dialogo dell’Italia con Slovenia e Croazia, la realtà degli esuli è un ago sensibile. Ma in questo momento è proprio con il Governo italiano che la Federazione intende sciogliere definitivamente i tanti nodi ancora presenti, dagli indennizzi alla problematica della scuola, dal trattamento dei dati sensibili ai diritti previsti dalle leggi già esistenti o che dovranno essere varate. Il tutto considerando la necessità di assicurare ai tanti figli e nipoti degli esuli che intendessero sviluppare una dimensione associativa che li rappresenti, il giusto supporto in termini moderni.
“Ci siamo dati da tempo dei compiti ben precisi – afferma Codarin -, stilando un elenco di mete da raggiungere, raggruppati nei dieci punti che la Federazione intende portare a compimento. Oggi però siamo consapevoli che il risultato del nostro impegno riuscirà ad essere palpabile solo se saremo in grado di cambiare clima e condizioni che ci hanno tenuti in scacco per tanto tempo”.
A che cosa si riferisce?
“Fino a qualche anno fa i nostri problemi erano considerati scomodi, le nostre richieste quantomeno impopolari…ma dopo il 13 luglio 2010 qualcosa è cambiato. L’incontro a Trieste dei Tre Presidenti ha stemperato antichi rancori rendendo possibile un dialogo che oggi si rivela fondamentale. Possiamo immaginare di costruire qualcosa di palpabile che lasci il segno della nostra vicenda ma che ci porti, nello stesso tempo, a contare a livello locale e nazionale”.
In che modo, che cosa rappresentano oggi gli esuli in Italia e nel mondo?
“A livello locale siamo i testimoni di una vicenda storica che solo oggi l’Italia inizia a conoscere e quindi il nostro contributo diventa fondamentale. A livello nazionale siamo impegnati a vigilare che diritti e conoscenze acquisite non vengano meno per dimenticanza o poca dimestichezza con le tematiche di confine. Ci sono accadimenti, come il francobollo dedicato a Boscovich che si vorrebbe uno scienziato croato, che ci devono far riflettere sui percorsi della cultura e della storia spesso travisati e stravolti. Noi non possiamo mai abbassare la guardia ed è quanto stiamo facendo. Gli esuli in Italia e nel mondo sono un popolo in cammino, che ha operato una scelta sofferta ma che continua a tramandare usi e costumi, tradizioni e volontà che non si possono ignorare. E’ nostro compito segnalare queste pulsioni e dar loro giusto compimento”.
Negli ultimi anni sono stati molti i dibattiti per chiarire il concetto dell’essere esuli oggi, con quali prospettive?
“L’Europa ci ha messi in una posizione privilegiata e forse non abbiamo ancora capito fino in fondo la portata di questo processo di apertura nei confronti delle nostre vicende. Voglio dire che la nostra esperienza diventa un insegnamento ed un monito, va quindi vista come esempio di una storia complessa e tormentata ma anche l’occasione per ribadire il diritto ad essere considerati, indennizzati, messi nella condizione di crescere in ciò che siamo. Vogliamo creare dei centri d’eccellenza che testimonino la nostra cultura, non per goderceli in solitudine ma per condividerli con il mondo. Mi riferisco, per esempio, all’esposizione permanente a Trieste dei quadri restaurati e raccolti qualche anno fa nella splendida mostra denominata HISTRIA. La loro collocazione al Civico Museo di Via Torino potrebbe essere il nucleo di una nuova realtà: il simbolo di ciò che la cultura degli esuli è stata ed è per l’Europa di oggi. Ma, ripeto, è solo un esempio: come non citare il valore della nostra editoria alla quale spetta il compito di testimoniare per noi, se messa giustamente in rete e proposta al vasto pubblico”.
Rimane il peso del passato, con diritti disattesi che hanno impegnato le associazioni per tanto tempo. Che fare?
“Ci vuole una legge quadro che risolva definitivamente il contenzioso degli indennizzi e che comprenda sia la soluzione di questo problema in modo equo e definitivo, sia il rifinanziamento della legge per il mantenimento della nostra cultura adesso e nel futuro. E’ un discorso che fatica a fare breccia ma che rappresenta l’unica strada possibile. L’impegno con il Governo su questo fronte continua da tempo. D’altra parte dobbiamo percorrere anche nuove vie rispondendo alle opportunità che ci vengono dall’Europa, dai progetti Interreg ed altri ancora, dove possiamo veramente esprimere al meglio la nostra dimensione di Italiani che provengono da territori ora parte di Slovenia e Croazia ma che possono contribuire con cognizione di causa ad arricchire quelle realtà portando la propria testimonianza culturale, per esempio nel contesto di un turismo che parla italiano. E questo è solo un esempio in una modernità di rapporti che ci vedono protagonisti”.
La Federazione non comprende tutte le associazioni degli esuli, una situazione che ha soluzione?
“L’ideale sarebbe procedere uniti ma è un assioma che spesso si scontra con la realtà dei fatti. Noi cerchiamo di essere pragmatici. Diciamo che con alcune realtà, vedi per esempio il Libero Comune di Pola in Esilio, certe fratture nel considerare anche la collaborazione con i territorio di provenienza, vengono meno con l’evolvere della situazione. Abbiamo assistito tutti con grande interesse e direi soddisfazione al successo del primo Raduno dei polesani a Pola, qualche anno fa considerato impossibile. E’ solo l’esempio di un’evoluzione che ci porta ad immaginare una realtà differenziata ma comunque complementare. Potrei citare il caso della Mailing List Histria che sta percorrendo una strada se vogliamo difficile e non accettata da tutti ma che sta dimostrando la validità delle azioni condivise”.
Una prerogativa delle giovani generazioni?
“Non soltanto. Direi che si tratta del tentativo di rifondare su nuove basi una comunità dispersa che attraverso internet ha individuato uno spazio ideale con il quale marcare il proprio territorio, stabilire il legame con le radici e dare un volto a persone che appartengono allo stesso mondo. Mai avremmo potuto immaginare una ricomposizione virtuale ebbene questa sta avvenendo nel modo più semplice, attraverso il bisogno e la spontaneità nel voler conoscere l’altra parte del nostro vissuto, la conferma che la nostra provenienza è reale, palpabile. E’ strano che sia uno strumento puramente virtuale a darci questa consapevolezza ma è ciò che sta succedendo. Ma neanche questo strumento straordinario ci aiuta a superare le divisioni che pure ci sono all’interno delle nostre associazioni, si tratta di una diversa visione non delle mete ma dei metodi che spesso si palesano nel modo meno conveniente”.
Una possibile soluzione?
“L’operosità, che certo non ci manca. Le iniziative, l’attività, l’impegno: il tutto finalizzato ai risultati che sono certo arriveranno”.
Rosanna Turcinovich Giuricin
425 – L’Arena di Pola 30/06/11 Siamo tornati a Pola
Siamo tornati a Pola
«Benvenuti e, per i più, bentornati in quelle che sono state la nostra Pola e la nostra Istria e che tali sono rimaste e sempre rimarranno nei nostri cuori; l’averle abbandonate nel 1947 è stato per noi tutti un atto d’amore nei confronti della nostra Italia, l’esserci ritornati oggi vuole soprattutto essere un atto, di pari valore, d’amore per la nostra Terra». Sono queste le parole, indici dello spirito con cui è stato concepito, organizzato e vissuto il 55° Raduno Nazionale degli Esuli da Pola, primo nella Città d’origine, con cui il Sindaco Argeo Benco ed il sottoscritto hanno accolto i circa 200 convenuti al loro arrivo nei rispettivi alberghi. È stato il primo atto di un raduno che a posteriori, in linea con quanto auspicato nel precedente numero del nostro giornale, è stato di indubbio successo. I motivi per sostenerlo, con convinzione ed orgoglio per quanto fatto, sono più d’uno.
Come già in precedenza evidenziato, il numero dei partecipanti è stato ampiamente superiore al doppio delle passate edizioni e sarebbe stato ancor maggiore se, come comunicato da diversi associati, motivi d’età, salute e lontananza non avessero impedito a tanti di intervenire. Per molti si è trattato di una prima adesione in senso assoluto ad un nostro raduno; altri, non meno numerosi, hanno colto l’occasione di questo “ritorno in gruppo” per vincere la ritrosia che sinora li aveva trattenuti dal rimettere piede a Pola individualmente; altri ancora, non polesani, hanno voluto presenziare in rappresentanza delle rispettive associazioni di appartenenza. Si è trattato di un’inusuale quanto tangibile solidarietà espressa, anche con l’invio di messaggi di saluto, apprezzamento ed augurio, da ANVGD, Associazione delle Comunità Istriane e Liberi Comuni di Fiume e Zara che, oltre ad averci riconosciuto il merito di aver aperto “ufficialmente” una strada, lascia ben sperare per future iniziative da intraprendere in comune. Al riguardo spiace rilevare l’assenza, questa sì scontata stanti le precedenti prese di posizione, dell’Unione degli Istriani; un domani chissà, poiché la sua contrarietà ad intessere rapporti con i “rimasti” non è, come dato ad intendere, poi così monolitica dal momento che talune sue “famiglie”, almeno due, hanno già percorso e si apprestano a ripercorrere la nostra stessa strada. Non c’è da stupirsi; il dissenso interno affligge anche la nostra Associazione ma, in democrazia, chi fa testo è la maggioranza ed è doveroso prenderne atto.
Motivo di soddisfazione è stata, altresì, la pronta e piena collaborazione, nonché ospitalità, dataci dalla Comunità degli Italiani di Pola, dai suoi massimi rappresentanti, Fabrizio Radin e Claudia Milotti, nonché la cordiale accoglienza fattaci da numerosi connazionali aderenti alla stessa che hanno voluto condividere con noi non solo i momenti conviviali ma anche quelli celebrativi, contribuendo, in particolare, ad affollare il Duomo in occasione della S. Messa domenicale, concelebrata dall’ex Vescovo di Trieste Mons. Ravignani, anch’egli esule da Pola, e da Mons. Staver, da sempre a noi vicino. Le parole che ci sono state rivolte non sono apparse di sola circostanza, bensì spontanee, sincere ed indice di una comune volontà di intraprendere assieme un percorso di superamento delle preesistenti divisioni. Particolarmente calorosa ed affettuosa, con banda, cori e dolcetti fatti in casa, è stata l’accoglienza riservataci dalla Comunità di Valle, quasi certamente la più italofona dell’intera Istria, che ci ha sorpresi e commossi. Di poco inferiore, anche per mancanza di tempo, quella riservataci dalla Comunità di Dignano il cui Presidente, nell’indirizzo di saluto rivoltoci, ha evidenziato come nei rapporti con i loro concittadini esuli si sia ormai deciso di abolire i termini “esuli” e “rimasti” appellandosi tutti, in omaggio alla comune origine “bumbara”, semplicemente “dignanesi”.
Motivo invece d’orgoglio è stato per noi l’esserci presentati a Pola non da semplici turisti né, tanto meno, con le “orecchie basse” bensì per quello che effettivamente siamo: esuli ed italiani. Per questo, nei momenti di maggiore ufficialità e d’incontro con i connazionali locali, sia in privato che in pubblico, abbiamo sempre esposto – sicuramente una “primizia” in Croazia – il Labaro della nostra Associazione; l’abbiamo fatto in comunità, in albergo, in chiesa, in cimitero e sulla pubblica piazza; lo stesso dicasi per l’esposizione del Tricolore in occasione dello scoprimento della targa in memoria dei naufraghi del cacciatorpediniere “Rossarol” nel Sacrario ai Caduti Italiani del Cimitero della Marina, alla presenza del Console generale d’Italia a Fiume, Cianfarani, del Console onorario a Pola, Sošić, dell’On. Furio Radin, di altre Autorità locali e del Vescovo Ravignani che l’ha benedetta. A conclusione della cerimonia abbiamo fatto anche risuonare le note della “Preghiera del Marinaio” musicata e cantata: certamente un qualcosa che, in memoria di quei poveri morti da noi recuperati da un oblio protrattosi per più di mezzo secolo, non si verificava più dal lontano 16 novembre 1942.
Com’era doveroso, allorché ci si trova in casa d’altri, tutto questo ed altro – come l’attribuzione della benemerenza “Istria Terra amata” allo scrittore Stefano Zecchi per la pubblicazione del libro Quando ci batteva forte il cuore proprio in quella Pola da cui prende avvio il suo romanzo che tanto ha contribuito alla diffusione della conoscenza del nostro vissuto – l’abbiamo fatto con discrezione, senza alcuna protervia e nel rispetto, per quanto possibile, delle regole locali. Questo comportamento, unitamente alle dichiarate finalità non politiche ed avulse da qualsivoglia revanscismo del nostro raduno, hanno fatto sì che gli ampi spazi dedicatici dai media locali, sia prima che durante e dopo il raduno, sia in lingua italiana che croata, abbiano espresso nei nostri confronti giudizi sostanzialmente positivi e che non ci siano stati né incidenti né contestazioni di sorta. Di rilievo in questo contesto sono state le dichiarazioni di numerosi politici croati, di studiosi ed interpreti del nostro esodo e, persino, delle associazioni dei combattenti antifascisti, tutti concordi nel darci il “benvenuti” anche se taluni hanno però precisato che “dell’esodo bisogna ancora parlare”, con ciò avanzando talune loro tesi a noi ben note e dalle quali di massima, pur contenendo talune verità, decisamente divergiamo. È, tuttavia, importante che ne abbiano parlato, dimostrando una non scontata disponibilità al dialogo che, se e quando occorrerà ed i tempi sembrano ormai maturi, non potrà che essere d’aiuto per una reciproca comprensione ed il rispetto delle rispettive memorie.
Di tutto quanto precede ampia trattazione si trova in altre pagine del giornale in cui è riportata la cronaca del nostro 55° Raduno nazionale.
Prima di concludere un’ultima considerazione. È per una fortuita coincidenza, assolutamente non ricercata, che proprio negli stessi giorni del nostro raduno di 66 anni fa – era, appunto, il giugno del 1945 – le truppe alleate entravano in Pola accendendo in noi la speranza, purtroppo ben presto tradottasi in cocente delusione, che almeno la nostra amata Città potesse rimanere italiana.
Oggi siamo ritornati a Pola con la speranza che la dolorosa pagina del nostro esilio possa, senza per questo dimenticare, essere finalmente girata e che tutti “esuli” e “rimasti”, italiani e slavi, si voglia e si possa costruire insieme un più armonioso futuro nel nuovo contesto europeo a partire dall’organizzazione, prossimamente, di un raduno quantomeno “istriano”, con il coinvolgimento di nostri più numerosi soggetti associativi e di più numerose espressioni delle Comunità italiane locali.
Non sarà facile, come non lo sarà l’individuazione di chi vorrà cogliere il “testimone” di questa nostra iniziativa, da molti definita “storica”. Auspico per tutti che almeno questa nuova speranza non vada delusa.
Silvio Mazzaroli
426 – La Voce del popolo 24/06/11 E & R – Il commovente ritorno degli esuli fiumani alla loro città per San Vito, Modesto e Crescenzia
a cura di Roberto Palisca
SONO ARRIVATI DAL VENETO, DAL LAZIO, DALLA LIGURIA E DALLA LONTANA ARGENTINA
Il commovente ritorno degli esuli fiumani alla loro città per San Vito, Modesto e Crescenzia
Per ogni “Fiuman patoco” la ricorrenza dei Santi patroni del 15 giugno, ovvero San Vito, Modesto e Crescenzia, è sempre un momento di grande festa. Se poi si è esuli e si ha la fortuna di riuscire a venire a Fiume per festeggiare San Vito “a casa”, allora l’evento assume importanza del tutto particolare e irrimediabilmente risvolti particolarmente commoventi.
Così è stato anche quest’anno. Per San Vito e Modesto sono ritornati a Fiume esuli residenti in Veneto, in Liguria, in Lazio e in tante altre regioni italiane. Due le comitive intervenute anche agli eventi alternatisi a Palazzo Modello nell’ambito della tradizionale Settimana della cltura fiumana, la prima guidata da Lino Badalucco, di stanza a Laurana e l’altra da Licia Pian, ospite all’albergo “Palace” di Abbazia.
Tra coloro che hanno onorato la Comunità degli Italiani di Fiume della propria presenza per San Vito anche due nostri assidui collaboratori: Rudi Decleva e Alfredo Fucci, del quale pubblichiamo le impressioni in questo numero della nostra rubrica.
Ma c’è stato anche chi è arrivato da molto ma molto più lontano. Le sorelle Anna Maria e Marina Marincovich, ad esempio, i cui genitori erano proprietari di una distilleria e fabbrica di liquori che fino all’immediato dopoguerra esisteva nel rione di Scoglietto, sono arrivate dall’Argentina (e non si sono lasciate sfuggire l’occasione di fare una capatina in vetta al Monte Maggiore dove Anna Maria andava spesso insieme a suo padre quando era ancora bambina).
427 – Il Piccolo 01/07/11 Intervista – l’ambasciatore Pietromarchi: «I rapporti fra Italia e Slovenia? Ottimi, dopo anni non eccelsi»
INTERVISTA ALL’AMBASCIATORE PIETROMARCHI
«I rapporti fra Italia e Slovenia? Ottimi, dopo anni non eccelsi»
LA CRISI di governo L’esecutivo di centrosinistra di Lubiana non rovinerà le relazioni
dall’inviato Pier Paolo Garofalo
LUBIANA «La recente visita del nostro Capo dello Stato a Lubiana per i 20 anni d’indipendenza della Slovenia ha sancito definitivamente la svolta nella qualità dei rapporti bilaterali. Ora gli elementi di contenzioso vengono trattati da entrambe le parti come temi di trattativa, franca e improntata a soluzioni realistiche». Alessandro Pietromarchi, ambasciatore d’Italia nella vicina capitale, traccia il quadro delle relazioni tra la Penisola e la piccola repubblica confinante. Ambasciatore, quale il giudizio globale sui rapporti bilaterali? Li definirei, dopo anni non proprio eccelsi, molto buoni, di ottimo livello. Il miglioramento negli ultimi tempi è stato netto e il punto di svolta può essere simboleggiato dal Concerto dell’amicizia diretto dal maestro Muti a Trieste nel luglio 2010. Come definirebbe la visita del Presidente Napolitano a Lubiana gli scorsi 24 e 25 giugno? Un pieno successo, anche e forse soprattutto personale per il nostro Capo di Stato. L’omologo sloveno Türk in ogni occasione non ha mancato di riservargli particolari attestazioni di stima, rispetto e manifestazioni di sincera simpatia. I presidenti Napolitano e Türk si erano incontrati già parecchie volte e ne era nata una particolare sintonia, confermata il 24 giugno scorso. Ritiene che la crisi dell’attuale esecutivo di centrosinistra di Lubiana possa danneggiare le relazioni? Non credo proprio, è una questione interna, slovena. Il rilievo e l’importanza dei rapporti bilaterali fra Italia e Slovenia sono di natura permanente. Al di là del “sereno costante” nel bilaterale, qualche problema resta tuttavia… Certo ma è importante sottolineare che, anche grazie al lavoro svolto, lo spirito con il quale queste tematiche vengono affrontate è mutato, molto più predisposto all’ascolto Cosa pensa del raddoppio della centrale nucleare di Krsko? La vita dell’attuale centrale è stata prorogata dal governo sloveno fino al 2043. Pertanto ogni discorso ed ogni decisione sul raddoppio della centrale sono rinviati di molti anni, forse fino al 2030. È noto l’interesse della Regione Friuli Venezia Giulia, recentemente ribadito dal Presidente Tondo a partecipare al progetto, quando i tempi saranno maturi. E sul rigassificatore di Zaule? Il ministro degli Esteri Žbogar ancora pochi giorni fa ha ribadito la contrarietà di Lubiana alla struttura “a causa dell’impatto transfrontaliero”, affermando però di volere sempre dialogare con l’Italia dopo le due riunioni avute con l’appoggio della Commissione europea. A livello di governo è stato istituto un gruppo “tecnico” per esaminare tutte le possibilità per la Slovenia di partecipare alle decisioni finali sul rigassificatore. La crisi economica e finanziaria pesa anche sulla “Svizzera dell’Est”? La ripresa è più lenta del previsto, ovunque, e la Slovenia non fa eccezione. Il Paese ha “corso” molto negli anni scorsi e, pur presentando una situazione che in un’ipotetica graduatoria continentale non sfigura affatto, ora si trova in difficoltà. Tagli al bilancio paiono non solo necessari ma urgenti. In questo contesto come si devono muovere gli imprenditori italiani? A chi ci chiede consiglio in vista di eventuali investimenti diretti cito il recente, positivo esempio della Julon Aquafil del Gruppo Bonazzi di Arco di Trento. Questa ditta specializzata, leader mondiale nel settore, ha creato nel suo stabilimento alle porte di Lubiana un nuovo impianto chiamato Econyl per la produzione di Poliammide 6 riciclata, frutto di un investimento di oltre 17 milioni di euro. Ebbene il Ministero dell’economia sloveno ha concesso un contributo di 3,6 milioni di euro. Più complesso e da affrontare con cautela è il discorso per quanto riguarda l’assunzione di partecipazioni in importanti realtà finanziarie, produttive o di distribuzione.
428 – La Voce del Popolo 24/06/11 La dott.ssa Paola Cogliandro nuovo console d’Italia a Spalato
AUGUSTO VACCARO HA CONCLUSO IL SUO MANDATO IN DALMAZIA
La dott.ssa Paola Cogliandro nuovo console d’Italia a Spalato
SPALATO – Il console d’Italia a Spalato, Augusto Vaccaro, ha concluso il suo mandato e ha già lasciato la Dalmazia. Vaccaro è stato destinato ad un altro incarico: il 29 giugno prossimo assumerà la funzione di console generale italiano a Porto Alegre in Brasile.
Attualmente a reggere la sede consolare nella città di Diocleziano è il vicenconsole Giuseppe De Luca. Il nuovo console sarà la dott.ssa Paola Cogliandro, una diplomatica giovane, che dovrebbe assumere l’incarico alla fine di luglio o all’inizio di agosto. Paola Cogliandro, console a Londra dal settembre del 2006, è milanese, ma di origine napoletana, poco più che trentenne. Vanta già un curriculum di notevole rispetto all’interno del ministero degli Affari Esteri di Roma e ha dimostrato di sapersi muovere con grande agio in uno dei Consolati più importanti del mondo. Ma la Dalmazia, con il suo retaggio storico e il presente contrassegnato da fitte relazioni con l’altra sponda adriatica, rappresenta sicuramente una sfida importante. Con l’entrata della Croazia in Europa l’Adriatico è destinato a divenire un “lago europeo”. Non dimentichiamo poi gli sforzi per costituire la macroregione adiatico-ionica. E naturalmente non va scordata neppure la piccola, ma tenace comunità italiana in Dalmazia.
L’ormai ex console Vaccaro ha salutato i connazionali di Spalato con una visita alla locale Comunità degli Italiani. Nel corso dell’incontro Vaccaro ha sottolineato che non esistono sodalizi grandi e piccoli: tutte le Comunità degli italiani sono grandi perché tutelare la cultura e la coscienza italiane è un compito non quantificabile. Il presidente della Comunità, Mladen Čulić Dalbello ha ringraziato Augusto Vaccaro per la preziosa collaborazione con il sodalizio spalatino e gli ha donato un dipinto del pittore Paparella raffigurante uno squarcio del capoluogo della Dalmazia.
Dario Saftich
429 – CDM Arcipelago Adriatico 27/06/11 Il professor Cronia definito da Pahor un croato italianizzato – Franco Luxardo controbatte e pubblica a confutazione un saggio di Tagliavini
Il professor Cronia definito da Pahor un croato italianizzato
Franco Luxardo controbatte e pubblica a confutazione un saggio di Tagliavini
Lo scrittore triestino Boris Pahor in un articolo apparso sul “Corriere della Sera” definisce “un croato italianizzato” il prof. Arturo Cronia, che lo laureò a Padova.
Ho conosciuto personalmente il professore e smentisco. Arturo Cronia era nato nel 1896 a Zara da famiglia italianissima e aveva frequentato il ginnasio-liceo della città, che negli ultimi anni del dominio austriaco era un centro di prim’ordine di cultura italiana. Aveva poi studiato a Graz, Praga e finalmente a Padova dove si era laureato.
Con studi che spaziavano dal ceco al russo, dallo slovacco al bulgaro e allo sloveno, aveva insegnato a Brno, Bratislava e Praga fino ad essere chiamato nel 1940 ”per chiara fama” come ordinario alla cattedra di Lingua e Letteratura serbo-croata ed incaricato di filologia slava all’Università di Padova, dove rimase fino alla morte nel 1967.
Il noto glottologo Carlo Tagliavini lo definì allora ”il miglior conoscitore della lingua e letteratura serbo-croata” nel nostro paese.
Un busto in bronzo lo ricorda – fatto rarissimo nell’ultimo secolo – nella sala La Basilica del Palazzo del Bo’.
Nessuno lo ha mai sentito definirsi croato e chi lo ha conosciuto ricorda con rispetto e simpatia i suoi sentimenti di italianità, in particolare quando ricordava la sua città perduta alla Jugoslavia.
Franco Luxardo
Leggi il saggio del prof. Tagliavini pubblicato sulla Rivista Dalmatica
430 – La Stampa 15/06/11 Lettere al giornale: Missoni non è croato ma dalmata italiano
Lettere al giornale: Missoni non è croato ma dalmata italiano
Missoni non e’ croato ma dalmata italiano Ottima l’intervista di M.G. Minetti a Ottavio Missoni (su La Stampa di sabato). C’e’ pero’ un grosso errore quando lo si definisce «forse il croato piu’ conosciuto d’Italia». Missoni non e’ ne’ croato ne’ slavo, ma dalmata italiano come lui stesso ribadisce piu’ volte nel testo.
Franco Luxardo Presidente Società Dalmata di Storia Patria
Torreglia (PD)
Risposta de “La Stampa”
Abbiamo definito Ottavio Missoni «croato» in quanto la Dalmazia fa parte della Croazia, poi, come Missoni stesso spiega, capiamo che per lui la definizione non e’ giusta, e ne motiva ampiamente il perche’, che lei ribadisce.
431 – Il Giornale 24/06/11 Pescara – Processo a D’Annunzio: genio o incosciente?
Processo a D’Annunzio: genio o incosciente?
di Matteo Sacchi
A Pescara stasera il poeta-soldato, interpretato dal suo biografo e studioso Giordano Bruno Guerri, finirà alla sbarra. Ascoltati capi d’imputazione e arringa difensiva, una giuria popolare stabilirà se davvero fu decadente, libertino e fascista
Un processo al Vate, con accusa (Andrea Margelletti, presidente del Ce.S.I.) e difesa (l’avvocato Annamaria Bernardini De Pace) che si danno da fare per tratteggiare tutti i caratteri del poeta guerriero, per far in modo che si possa giungere a un verdetto definitivo sulla sua complessa figura. Inizierà così il festival dannunziano di Pescara intitolato «Tener-a-mente» che si protrarrà per tutta l’estate e che, oltre al giocoso dibattimento per stabilire colpe e meriti di Gabriele d’Annunzio, vedrà svolgersi anche due importanti convegni. Il primo l’8 luglio intitolato «D’Annunzio padre dello stile italiano» che, affiancato da una mostra omonima, sarà dedicato alle molteplici influenze esercitate dall’estetica dannunziana sulla moda, sulla lingua e su tutti i versanti del gusto made in Italy.
Il secondo il 19 settembre in cui si discuterà dei 40 libri recentemente usciti e che hanno per tema vita, opere e avventure del creatore del Vittoriale.
Restando al processo, che si svolgerà stasera all’ex stabilimento di liquori Aurum, oltre ad accusa e difesa, di cui riportiamo in questa pagina una sintesi delle rispettive arringhe, ci sarà anche un giudice titolare – il sindaco di Pescara Luigi Albore Mascia – e due giudici «a latere», Franco Farias e Marco Patricelli. Ma soprattutto una giuria popolare che per alzata di mano decreterà l’innocenza o la colpevolezza. Quanto all’«imputato», non dovrà accontentarsi di una mera presenza in spirito. Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale degli Italiani, interpreterà d’Annunzio e pronuncerà la sua autodifesa.
Così spiega al Giornale: «Le accuse rivolte a d’Annunzio le conosco bene.
Sono quelle contro cui lotto da anni. D’Annunzio decadente? Per niente, è stato un grande modernizzatore, dal linguaggio alla politica, ai costumi sessuali. D’Annunzio malato di sesso e di donne? Il sesso gli interessava, ma il lavoro gli interessava di più. D’Annunzio antesignano del fascismo con la sua presa di Fiume? Niente di più falso, basta leggere la sua Carta del Carnaro. È una costituzione modernissima e multietnica, non solo dà il diritto di voto alle donne, ma anche tutti i diritti elettivi. Il fascismo ha invece ripreso da lui solo il lato rituale, le immagini e le coreografie».
E se la sostanza dannunziana è questa, Guerri nella difesa non vuole nemmeno rinunciare agli artifici retorici del «maestro»: «Voglio partire con un passo tratto da L’innocente ma non sveliamo quale – scherza -. Non voglio facilitare l’accusa e diminuire l’effetto sorpresa».
Vedremo a chi darà ragione la giuria popolare. Comunque non si disperi chi non è in grado di andare sino a Pescara. Quest’estate ci saranno un sacco di iniziative anche al Vittoriale. A partire dalla creazione del nuovo museo «D’Annunzio Eroe» che verrà presentato nella conferenza stampa del 3 luglio.
Verranno presentati ai giornalisti e al pubblico ben 72 oggetti inediti appartenuti al Vate, tra cui l’autografo de La notte di Caprera che nessuno aveva sino a ora mai visto. La stessa sera prenderà il via anche la parte gardonese del festival «Tener-a-mente» come spiega Guerri: «Noi e Pescara siamo gemellati. Questo ci ha consentito di fare economia d’impresa».
432 – Corriere della Sera 30/06/11 Il Vittoriale di Gardone : Addio «Museo della Guerra», ora sarà dedicato a «d’Annunzio eroe»
Addio «Museo della Guerra» . Ora sarà dedicato a «d’Annunzio eroe»
di MARISA FUMAGALLI
Il Vittoriale degli italiani riceve un’importante raccolta di cimeli bellici, e il presidente Giordano Bruno Guerri prende l’occasione per cambiare il nome al Museo della Guerra. A suo dire, «inadeguato e respingente» nel rendere il senso di quegli oggetti fascinosi, come la bacchetta brandita da Arturo Toscanini nel memorabile concerto a Fiume o la scultura di Adolfo Wildt, esposti nelle stanze dello Schifamondo, la nuova casa di Gabriele d’Annunzio mai abitata dal Poeta. Ecco, allora, che il prestito (ventennale, rinnovabile) della collezione privata dell’ambasciatore Antonio Benedetto Spada, composta da 72 reperti — armi, bandiere, opere d’arte, autografi — legati alla memoria dannunziana, innesca la piccola rivoluzione. Guerri, infatti, decide di ampliare lo spazio espositivo aggiungendo due sale e, contemporaneamente, di intitolare l’intero Museo a d’Annunzio Eroe. Le nuove sale saranno inaugurate domenica a Gardone, sul lago di Garda nel Bresciano, in apertura di una serata ricca di eventi. Il vernissage per il Museo, infatti, coincide con il debutto di «Tener-a-mente» , Festival del Vittoriale, dedicato agli spettacoli di qualità, in una cornice suggestiva e affascinante. «Il Fai ha inserito il Vittoriale tra i 10 parchi più belli d’Italia» , nota Guerri, vantando il rilancio del sito dannunziano. «È aumentata l’offerta culturale — spiega —. Dopo anni di caduta libera dei visitatori, oggi siamo a più 16 mila unità, con un bilancio economico in attivo» . Ma ciò che preme al presidente è ravvivare e rinnovare l’immagine di d’Annunzio, togliendogli l’etichetta di «decadente, protofascista» e riproponendolo come «innovatore» . Anche il Museo che ha cambiato nome sta dentro la linea. Guerri, infatti, ridisegna la figura dell’Eroe. «Le sue imprese— osserva— non furono soltanto di guerra. Prendiamo la spedizione fiumana. Io credo che, nonostante il sangue versato, essa fu un atto di pace: per risparmiare alla città quei lutti, ben più gravi, che si sarebbero consumati nel 1945 con le foibe e l’esodo degli istriani. Credo anche che a Fiume d’Annunzio abbia realizzato un avanzatissimo esperimento di libertà e democrazia, testimoniato dalla Costituzione donata alla “Città di Vita”, la Carta del Carnaro» . D’Annunzio Eroe in tempo di guerra e di pace, dunque. Lo raccontano gli stessi cimeli del Museo. Oggi ancora più numerosi con la nuova raccolta dell’ambasciatore, composta da altri oggetti bellici — spade cesellate, daghe istoriate, pugnali d’oro — trasformati, però, dal gusto del Poeta in testimonianze d’arte e di bellezza. «È riduttivo pensare che trasmettano la sola idea della guerra» , dice il presidente del Vittoriale, citando anche i manoscritti autografi in mostra nelle Sale Spada. Tra questi, ve n’è uno che, nel 150 ° dell’Unità d’Italia, assume particolare valore simbolico/celebrativo. È La notte di Caprera, dedicato a Garibaldi, l’eroe della spedizione dei Mille. Composto da 60 carte, il Vate lo datò «Settignano, la Capponcina: 22 gennaio 1901 (ore sei di sera)» . Guerri si dichiara soddisfatto di questa nuova operazione culturale («si integra con “D’Annunzio segreto”, la mostra permanente inaugurata 8 mesi fa» ), sottolineando la generosità dei privati che, stimolati dal dinamico corso del Vittoriale, fanno a gara nelle donazioni: arrivano a Gardone piccoli o grandi tesori già custoditi nelle case; artisti contemporanei donano le loro opere. «Il contributo dei privati va incoraggiato — conclude — In proposito, mi sono confrontato con il ministro per i Beni Culturali, Giancarlo Galan. La mia filosofia è anche la sua»
433 – La Voce del Popolo 02/07/11 Del si’, del da, dello ja – Poliglotti per forza
Del si’, del da, dello ja
di Milan Rakovac
Poliglotti per forza
Magari se savessimo noi altri, profughi istriani per forza, o per volontà o per destin, che sessant’anni fa esisteva el UNHCR, fato propio per noi altri perdudi nel mondo; caso mai ghe saria qualche assistensa per noi? Ghe xe ancora gente scrupolosa in giro, anche nel mio mestier; no semo propio tutti-tutti gattini boni-boni lecando i padroni. Come Gigi Riva che sulle pagine del Espresso ricorda un giubileo triste, quel dei profughi mondiali: in questa occasion, me ricordo come ancor picinin iero un esule interno ed esterno; copadi pare e nono, ala a Pola, mia mare e noi due fradei, nel esodo, e entrar nella casa – de un esule italian. E mi sfoiavo i libri RIMASTI (come che i me piaseva!) nella cantina, imparando el ‘talian: “Storia naturale del regno vegetale”, e dopo iera un Salgari, e fumetti “Forza John”…
E subito, ancora durante la Guera e nel dopoguera, xe la multiculturalità che me ciapa, e per forsa dovevo praticarla, la drio la Rena (e no l’Arena, po!), con tutti ‘sti “rimasti” (*). Go “imparà” tante lingue, fin’ a otto anni “parlavo” trane ’l ciacavo croato istrian, el croato-croato (bomba, bunker, banda…), tedesco (deckung, loss, schnell…), ‘talian (povero picio, balignere, mulo…), l’inglese (ciu’gam, camel, okei boi…)…
Ma, ecco Gigi Riva: “Sono, nel mondo, 36 milioni. Da sessant’anni di loro si occupa l’Unhcr… Trentasei milioni di persone sono il numero di una media nazione. Quella di cui si parla non conosce confini, longitudini o latitudini. E il suo popolo è formato da tutta la gamma di colori che compone l’unica razza, quella umana. I più numerosi per origine sono gli afghani (quasi tre milioni), seguiti dagli iracheni, i somali, i congolesi. Il continente più rappresentato è l’Asia (quasi 19 milioni) seguito dall’Africa (poco più di dieci), dall’America Latina (circa quattro) e dall’Europa (tre). Cresce in popolazione (e si deve aggiungere: purtroppo) a ritmi vertiginosi: erano 20 milioni un decennio fa e sono quasi raddoppiati.
Si assomigliano tutti, i cittadini di questo strano Paese, perché tutti hanno una storia dolente alle spalle e i loro racconti di vita sono spesso simili. A un certo punto hanno trovato un governo che è riuscito a dare loro una tenda e un piatto di minestra. Da lì, in diversi, sono ripartiti e in un luogo che non è quello dove sono nati, la tenda si è trasformata in una casa di mattoni, la minestra in un piatto di carne o pesce. E hanno trovato un lavoro, magari non il loro, ma tuttavia qualcosa con cui reinventarsi. Sempre sostituiti, nella scala degli ultimi, da nuovi arrivati (nell’ultima ora, i siriani che scappano in Turchia), che devono ripercorrere lo stesso tragitto: la tenda, la minestra… Il loro governo si chiama Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite), e fu istituito 60 anni fa. Doveva rimanere in carica per tre anni. Ma non c’è niente di più duraturo della provvisorietà e ha dovuto estendere (un’altra volta, purtroppo) il suo mandato. La sua storia coincide con la mappa geopolitica delle turbolenze di un Pianeta sempre più instabile, sempre più in guerra”…
Ricordo anche gli esodi del 1991 e del 1992: le prime navi cariche di profughi provenienti da Ragusa, gli autobus provenienti dalla Slavonia prima e dalla Bosnia poi; ricordo come gli alberghi istriani si riempivano di gente. Parlavo con loro di Fulvio Tomizza, ci ripresero anche le telecamere dell’HRT che mise in onda il servizio in un telegiornale. All’inizio del 1992 Fulvio, che aveva già dato prova del suo grande e nobile cuore istriano, dimostrò ancora una volta calore nei confronti degli immigrati e disse che la maggior parte degli Istriani vennero in Istria nelle vesti di profughi, di rifugiati alla ricerca di una via d’uscita dalla miseria e di un rifugio dalla violenza… Dai Balcani in Istria alla ricerca della “miglior vita”… Non me ne voglia, collega Riva, ma devo dirle che si è scordato dell’ultima ondata di profughi europei: quella della gente in fuga dalla Bosnia ed Erzegovina, dalla Croazia, dal Kosovo. Si è scordato di quanti vivono sparsi nel mondo e che forse mai più torneranno nei luoghi che li hanno visto nascere. E si è scordato anche di noi Istriani che scappavamo gli uni dagli altri…
(*) Ho scritto “rimasti” tra virgolette e ho messo un asterisco perché in occasione del 60.esimo anniversario dell’UNHCR, forse noi “rimasti” potremmo invitare tutti i nostri profughi a tornare, l’invito andrebbe rivolto agli “altri” prima ancora che ai “nostri”?! È chiaro, scrivo della Bosnia pensando all’Istria. È un fatto personale, perché tre famiglie, tutte tre miei parenti stretti, fuggirono dall’Italia (Istria) in Jugoslavia, e dopo altre tre dalla Jugoslavia (Istria) in Italia. E così io “un uomo fortunato” mi ritrovo con parenti stretti in tutta l’ex YU, in Italia, nelle Americhe, in Australia… Alle volte ricevo la notizia della morte di un parente, altre nemmeno questo; e capita anche che arrivi un cugino dal Cile e che non conosca né l’italiano né il croato… e allora comunichiamo “usando mani e piedi”… Per noi non c’è speranza, ma questa deve esserci per le nuove generazioni; non dobbiamo permettere a nessuno di seminare zizzania. In Istria questo obiettivo lo abbiamo già raggiunto, o almeno così credo… ■
434 – Messaggero Veneto 28/06/11 Gorizia – Quel giorno del ’91 alla Casa Rossa – Jugoslavia in frantumi e alla Casa Rossa fu una battaglia lampo
Quel giorno del ’91 alla Casa Rossa
LA GUERRA IN SLOVENIA
Jugoslavia in frantumi e alla Casa Rossa fu una battaglia lampo
La TESTIMONIANZA
FIAMME SUL CONFINE 20 anni DOPO
Il 25 giugno 1991 la Slovenia e la Croazia proclamano l’indipendenza. Il 28 i tank di Belgrado vengono respinti a Nuova Gorizia
DUE ITALIANI OLTRE IL VALICO UN CRONISTA E UN FOTOGRAFO DEL “MESSAGGERO VENETO” IN MEZZO ALLO SCONTRO CHE S’ACCENDE AI DISTRIBUTORI PETROL
LA TERRITORIALE IN CAMPO LE MILIZIE SLOVENE ATTACCANO A COLPI DI BAZOOKA I CINGOLATI FEDERALI COLTI DI SORPRESA: QUATTRO MORTI, GLI ALTRI DISARMATI E CATTURATI PRESI SULLA VIA PER GORIZIA SUSPENSE VERSO SANT’ANDREA: I SOLDATI DI BELGRADO BLOCCANO I DUE ITALIANI CHE TENTANO DI RIMPATRIARE PRENDENDOLI PER SPIE DEGLI SLOVENI
di Pietro Oleotto
All’inizio del giugno di vent’anni fa, la Jugo a Gorizia cominciava con una lunga fila per andare a fare benzina, la Croazia era solo il mare di Istria e Dalmazia, Ratko Mladic – che nel ’95 sarebbe diventato il “boia di Srebrenica” – un generale dell’Armata Popolare. Quell’Armata che in quei giorni fu spedita in assetto da guerra, sfoderando i cingoli dei tank, a presidiare i confini della Repubblica socialista federale la cui unità mostrava crepe evidenti. Qui, da questa parte, si notavano a stento, anche se si sapeva che non era più il paese descritto con una famosa frase dal padre fondatore: «Noi in Jugoslavia dobbiamo dimostrare che non esistono maggioranze e minoranza». «Mi moramo u Jugoslaviji pokazati da ne može biti manjine i vecine», come aveva declamavato il maresciallo Josip Broz Tito, scomparso undici anni prima.
Nel 1991 non solo esistevano maggioranze e minoranze, c’era la forza centrifuga dei nazionalismi azionata dalla Serbia di Milosevic che avrebbe portato prima alla disgregazione dello Stato, poi agli orrori della guerra civile. Così il 25 giugno Slovenia e Croazia proclamarono la propria indipendenza e il giorno 28 bisognava essere oltre confine, da italiani, per testimoniare cosa succedeva alle porte di casa. Cosa ci facevano quei carri armati tra la gente, qualche metro dopo il valico internazionale della Casa Rossa? “Di là” si combatteva o il passaggio storico era pacifico? Alle cinque del pomeriggio si diceva che sulla strada statale che collega Lubiana con Nuova Gorizia sarebbero passati i rinforzi dell’esercito federale per raggiungere gli avamposti piazzati sul confine: lasciata la redazione isontina del Messaggero Veneto, la Mercedes del nostro fotoreporter, Nello Visintin, una mezz’ora dopo era già ad Aidussina, dove il segnale italiano del telefono veicolare (una cornetta agganciata a un’enorme scatola nera di metallo, i cellulari erano una rarità) si perdeva inesorabilmente. Bisognava fermarsi, ma non per l’assenza di comunicazioni con il giornale, dove il capo servizio Vincenzo Compagnone coordinava il lavoro tenendo i contatti con Udine: sulla striscia d’asfalto del ponte sul torrente Hubel la gente del paese aveva piazzato i mezzi pesanti in proprio possesso, a spina di pesce, per sbarrare la strada ai cingolati comandati da Belgrado.
Era il primo segnale che c’era una regia slovena per impedire l’espandersi a macchia d’olio di un eventuale conflitto attraverso l’opera della milizia territoriale, la Teritorialna Obramba. Dieci minuti, venti, trenta, un’ora. Poi qualcuno si avvicina: «Italiano, torna a Nuova Gorizia, là sta succedendo qualcosa». La statale è deserta, il cambio automatico della macchina scala marce lunghe per assecondare la nostra volata di ritorno verso il confine: Crnice, Vitovlje, Sempas.
A circa un chilometro da Casa Rossa un posto di blocco: documenti. È la polizia slovena. «Volete passare? A vostro rischio». Rischio? Di cosa? Parcheggiamo e cominciamo a correre verso il valico lungo il rettilineo che gli sta di fronte, fino a quando non sentiamo un’esplosione fortissima. Siamo a pochi metri dai distributori Petrol, deserti, mentre dal carro armato al centro della strada si alza una colonna di fuoco. La Nikon reflex di Visintin scatta a ripetizione, la mia tasca gonfia di rullini di pellicola (altro che digitale!), si svuota in un amen: sono steso a pancia in giù sotto una vecchia Zastava 750 – la 600 Fiat “potenziata” fatta a Kraguljevac –, quando sento un rumore metallico alla destra della mia testa.
A un miliziano sloveno è appena caduto un caricatore da kalashnikov: lo raccolgo e lo consegno prontamente. I territoriali hanno attaccato a colpi di bazooka i tank dell’Armata Popolare, presa di sorpresa: quattro i morti in quell’inferno. Le lingue di fuoco si alzano alte dalla torretta di comando e ipnotizzano i soldati che vengono catturati in massa con qualche raffica di mitra. Dopo una manciata di minuti siamo infatti in un grande cortile a poche centinaia di metri dal confine, dove assistiamo a una scena da film: i militari dell’esercito sono disarmati, in piedi e in fila, con le mani dietro la nuca.
L’attacco sloveno è riuscito, Casa Rossa è sotto controllo e la gente comincia a uscire dalle case. E mentre i prigionieri sfilano di corsa al comando dei vincitori si sente il rumore dei sassi lanciati contro i loro elmetti che nascondono facce impaurite e tratti somatici macedoni, kosovari, montenegrini. Era la politica dell’Armata: mai fare il soldato a casa. Con il pestare degli anfibi sull’asfalto e le accelerate dei camion che caricano la paura e lo smarrimento di quei ragazzi – per portarli nella caserma di Deskle sulla strada per Canale – cala anche la tensione.
Riprendiamo la macchina, comunichiamo alla redazione che abbiamo delle foto da pubblicare, raccontiamo attraverso il telefono veicolare la battaglia alle porte di Gorizia. E cerchiamo una via d’uscita attraverso l’altro valico internazionale, quello di Sant’Andrea, quello dell’autostrada. Ma al secondo incrocio dopo l’abitato di San Pietro (e l’ennesimo posto di blocco) le vie tornano deserte: in lontananza il cannone di un tank federale segue la nostra Mercedes nel suo tragitto e dopo lo svincolo è chiaro che siamo in trappola.
Le sbarre del confine jugoslavo sono abbassate, impossibile raggiungere l’Italia dove la nostra polizia è in presidio, armata, dietro dei sacchi di sabbia. Ma quando giriamo la macchina, dopo qualche centinaio di metri in senso inverso, ci accorgiamo di non essere più soli: dalla vegetazione esce una sentinella mimetizzata, urla qualcosa in serbo, Visintin piazza una retromarcia che copre il rumore di una raffica in aria e nel momento del “rinculo” dal finestrino aperto spunta una canna. Catturati. Hanno la stella rossa sul copricapo, ci credono delle spie pronte a rivelare le loro posizioni agli sloveni della Territoriale. Sono dell’Armata federale, sono in guerra, una guerra civile.
Fuori dalla macchina la perquisizione: spariscono i rullini, resistono solo quelli nascosti sotto i tappetini della vettura. Mezz’ora dopo – bontà loro – ci alzano la sbarra di qualche centimetro, tanto che l’antenna piazzata al centro del tetto fatica a passare. Ci è andata bene, possiamo raccontare cosa sta succedendo, con parole e immagini. Neanche un graffio, mica come quel povero soldato scappato oltre il confine durante l’attacco e colpito a un gluteo prima di essere accolto in Italia.
Il giorno dopo andai in ospedale a sentirlo. Giovanissimo, biondo, occhi azzurri era un croato: «Faccio il contadino», mi disse quasi volesse far felice la memoria di Stjepan Radic. «Ci avevano detto che dovevamo difendere la nostra terra da voi italiani». Era cominciato il decennio delle bugie. Curato, fu rispedito a casa, nell’entroterra di Zara. Chissà se per lui fu l’ultima divisa vestita. Se vide l’Operazione tempesta, la terribile Operacija oluja del generale Ante Gotovina, o se raggiunse Metkovic per sostenere l’identità croata dell’Erzegovina. Storie tormentate di quest’ultimi vent’anni nei Balcani, quasi un effetto domino da quel 28 giugno 1991, quando fu difesa l’indipendenza della Slovenia attraverso delle battaglie lampo ai valichi, come quello di Casa Rossa. Là dove adesso non c’è più un confine, dove si paga in euro, dove è Europa ed è tutto diverso. Meno il prezzo della benzina, sempre più basso: ma almeno non si fa più la coda.
435 – Avvenire 24/06/11 Anniversari – Jugoslavia, un sogno mancato
ANNIVERSARI. Vent’anni fa l’indipendenza della Slovenia aprì il tragico decennio delle guerre civili che seppellirono l’unità slava
Jugoslavia, un sogno mancato
DI VITTORIO FILIPPI
Lubiana, sera del 25 giugno 1991. Sale sul pennone la nuova bandiera della Slovenia, simbolo dell’indipendenza: la stella rossa non c’è più, sostituita dal Tricorno, il monte più alto del nuovo Stato ma anche luogo della mitologia slovena. Fa caldo, la piazza davanti al Parlamento è gremita di gente, sfila la Difesa territoriale, in pratica il nuovo esercito. Il momento è storico: parla il presidente Kucan, ex comunista, l’uomo dello strappo con Belgrado. Due Mig sorvolano minacciosi la capitale e, alle prime ore del mattino, si muoveranno i carri armati federali. È la guerra, la prima in Europa dopo quarantasei anni di pace. Ma è anche la fine della Jugoslavia socialista, che per la seconda volta nel Novecento – dopo l’esperienza della Jugoslavia monarchica dei Karagiorgevic – si sfalda. In realtà la secessione slovena e croata di vent’anni fa ha radici lunghe, già i solenni funerali di Tito del maggio 1980 fecero presentire la difficoltà del tenere insieme un mosaico complesso e fragile composto da sei repubbliche, due province autonome, quindici etnie, ventiquattro nazionalità, due alfabeti, tre religioni.
Tutti gli anni Ottanta, morto il leader fondatore, icona storica della seconda Jugoslavia, si consumarono nella sistematica erosione di quella “unità e fratellanza” che ufficialmente doveva non solo tenere insieme il Paese, ma anche rimuovere gli eccessi balcanici di rancori e rivalità che ia seconda guerra mondiale aveva seminato. Favoriti dalla farraginosa costituzione del 1974, i vari Stati della federazione si muoveranno sempre più per conto loro ignorando il centro federale e, quel che è peggio, andando sempre meno d’accordo. Circolava una amara battuta: se la Jugoslavia si disintegrasse, le repubbliche non se ne accorgerebbero. La stessa autogestione, una sorta di “socialismo di mercato” che avrebbe dovuto dare le fabbriche agli operai, in realtà non solo moltiplicò le burocrazie rosse (la “nuova classe” denunciata da Gilas, il grande eretico jugoslavo) producendo disastrosi risultati economici, ma germinò interessi particolaristici e corporativi che alimentarono la frammentazione finale. Frammentazione che, ben preparata dalla sbornia dei nazionalismi etnocentrici negli anni Ottanta e divenuta vera e propria guerra nell’estate del 1991, divorò gli anni Novanta in un’orgia di violenza che ebbe il suo incredibile epicentro in Bosnia, la “piccola Jugoslavia” in cui si accentuavano le contraddizioni e le complessità del Paese. Una violenza che si accanì anche contro tutto ciò che ricordava la memoria comune come simboli, monumenti e toponomastiche. Come fanno popoli così piccoli ad essere così cattivi tra di loro, si chiedono attoniti i personaggi di Balcancan, il bel film del macedone Mitrevski. Per una specie di ellisse storica, i vent’anni di convulsioni che dissolsero la Jugoslavia federale iniziarono nel piccolo Kosovo, patria dell’epica serba, già l’anno dopo la morte di Tito e qui si conclusero nel 1999 con
l’intervento della Nato e l’avvio dell’indipendenza di Pristina. Oggi, a vent’anni dall’esplodere delle guerre infra-jugoslave, rimane il dolore di uno spreco storico gigantesco che ha bruciato – oltre a quasi centomila vite solo in Bosnia – l’idea stessa di un Paese, quell’antico sogno illirista di riunire gli Slavi del sud che oggi sopravvive nella cosiddetta “jugonostalgia”.
Uno spreco i cui costi economici ed antropologici continueranno a pesare, anche se gli odi si sono stemperati, molti -non tutti – criminali di guerra sono stati raggiunti e la Croazia si appresta a divenire il ventottesimo membro dell’Unione Europea. Problematiche rimangono le realtà della Bosnia e del Kosovo. Nella prima, nemmeno la dolcezza struggente delle sue sevdalinke può nascondere la mostruosità della posticcia costruzione statuale concepita a Dayton, fatta di due entità e di un distretto autonomo, con tredici costituzioni, quattordici governi con circa cento ministri e diverse magistrature. E uno e bino appare anche il Kosovo, tanto che poche settimane fa il ministro serbo dell’Interno, il leader socialista Dacie, ha semplicemente proposto di spartirlo tra Albania e Serbia «prima che sia troppo tardi». Insomma la disintegrazione potrebbe ancora continuare, instancabilmente, mentre perfino i censimenti fanno paura ai nazionalisti che non osano contarsi. La Jugoslavia è scomparsa dalle carte geografiche, ma la ‘ balcanizzazione della ragione” -come la chiama la filosofa zagrebese Ivekovic – sembra persistere.
436 – Il Piccolo 29/06/11 «Si stava meglio quando c’era Tito» – Sondaggio nella ex Jugoslavia 20 anni dopo la dissoluzione. Sloveni, croati e serbi pronti a una nuova “collaborazione”
«Si stava meglio quando c’era Tito»
Sondaggio nella ex Jugoslavia 20 anni dopo la dissoluzione. Sloveni, croati e serbi pronti a una nuova “collaborazione”
di Azra Nuhefendic
TRIESTE «Si stava meglio quando si stava peggio» sembra dire il sondaggio condotto negli Stati della ex Jugoslavia. L’analisi “L’opinione pubblica – 20 anni dopo” mostra che, a causa della rottura violenta della ex Federativa, la maggioranza dei cittadini in Serbia e Croazia non sembra essere soddisfatta di quanto accaduto negli ultimi quattro lustri. La maggioranza degli intervistati giustifica i motivi che hanno portato allo smembramento della Jugoslavia, ma sulle cause della dissoluzione le opinioni variano da un Paese all’altro. In Bosnia-Erzegovina, ad esempio, i cittadini incolpano il sistema multi-partitico, mentre gli sloveni vedono la causa principale della rottura nel diverso sviluppo economico delle ex repubbliche.
Tuttavia, a prescindere dalle diverse interpretazioni del passato, la maggior parte dei cittadini intervistati dichiara di vivere peggio rispetto a venti anni fa. I cittadini intervistati di Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina e Serbia oggi sono pronti ad una nuova cooperazione politica, economica e anche militare nell’ambito ex jugoslavo. Tutti gli intervistati hanno in comune il fatto di dare i peggiori voti ai loro attuali governi, parlamenti e partiti politici. Solo in Serbia, l’ex presidente Slobodan Milosevic non riceve una valutazione negativa per il suo ruolo nella crisi Jugoslava; l’ex presidente croato, Franjo Tudjman, all’opposto, viene considerato negativamente dai suoi connazionali. L’indagine mostra anche che il successo degli atleti della ex Jugoslavia negli sport rallegra gli sloveni, i serbi e i bosniaci, ma non i croati. Anzi, due terzi dei croati intervistati si sentono “molto infelici” per i successi degli atleti serbi. «C’è anche uno strano fenomeno, ovvero le persone che hanno partecipato alla guerra hanno un atteggiamento più indulgente verso le altre nazioni rispetto a quelli che sono fuggiti dal conflitto» nota lo storico serbo Cedomir Antic. «Non si vive di nazionalismo.
Il nazionalismo è qualcosa che cattura il cuore, a volte siamo disposti a sacrificare anche la vita per gli ideali nazionali. Ma per sfamare i bambini il nazionalismo non serve. Esso può avvelenare l’anima. Ad ogni modo, le persone possono paragonare la vita di oggi e quella di venti anni fa, e i risultati mostrano chiaramente che gli abitanti della regione, fatta eccezione per la Slovenia, due decenni fa avevano una vita migliore» afferma il sociologo Jovo Bakic. La cultura resta il settore dove ancora oggi, dopo venti anni, c’è più apertura e disponibilità a collaborare.
437 – Corriere della Sera Veneto 01/07/11 Gianfranco Ivancich: Da Venezia agli Usa «Io, l’unico italiano al funerale di Ernest Hemingway»
HEMINGWAY
Da Venezia agli Usa «Io, l’unico italiano al funerale di Ernest»
Gianfranco Ivancich, il racconto di un amico. I due si videro per l’ultima volta a Malaga nel 1959, in occasione del compleanno dello scrittore
A San Michele al Tagliamento, tra le rovine di Villa Mocenigo-Ivancich lasciate dal secondo conflitto mondiale, ho incontrato Gianfranco Ivancich, amico di Hemingway e di Pound, rampollo di una famiglia di ricchi possidenti, diplomatici, armatori, giunti a Venezia nell’Ottocento da Lussinpiccolo. Nel febbraio 1949, Gianfranco conobbe Hemingway grazie a sua sorella Adriana. L’incontro avvenne in una Piazza San Marco velata di nebbia, poi andarono a mangiare un risotto di scampi al Gritti, non prima di aver sorseggiato alcuni bicchieri di Negroni. Tra i due iniziò così un’amicizia che durò per sempre e che Ivancich descrive nel suo libro Da una felice Cuba a Ketchum. Ad affascinare il romanziere americano fu la vicenda personale di Gianfranco, colma di coraggio e vitalismo: nel 1942, a El Alamein, era stato ufficiale di un reggimento blindato italiano, ferito e rimandato in patria, si era poi unito ai partigiani.
Alla fine della guerra si ritrovò con il padre assassinato e la villa di campagna bombardata. Questa amicizia si consoliderà ancor di più a Cuba, dove egli restò, a fasi alterne, per sette anni (dopo esser diventato l’agente della Sidarma, società armatrice dei Cini), dapprima come ospite di Hemingway a Finca Vigìa, successivamente vivendo nella tenuta che si comprò, confinante con la fattoria del romanziere. Ricorda che lì «Ernest lavorava dal mattino presto, scrivendo e riscrivendo». L’ultima volta che vide lo scrittore fu nel 1959 a Malaga, dove venne invitato in occasione del suo sessantesimo compleanno. Il 1959 fu anche l’anno in cui il romanziere americano andò definitivamente a vivere a Ketchum, nell’Idaho, con la moglie Mary, in una bella casa prossima ai boschi, di fronte ad un suggestivo paesaggio montuoso. Nonostante ciò, qui i suoi disturbi peggiorarono: allucinazioni e manie di persecuzione si fecero sempre più insistenti, rendendo necessario un ricovero in clinica, dove i medici gli praticarono anche l’elettrochock. Ci fu poi un nuovo ricovero in clinica, durante il quale Hemingway fu salvato da due tentativi di suicidio. All’inizio di luglio 1961 era nel suo palazzo di Venezia, in Calle del Rimedio, allorché apprese della morte dell’amico: «quando il maggiordomo alla mattina mi portò assieme al caffè anche il quotidiano locale, lessi la notizia che Ernest si era suicidato il 2 luglio con un colpo di fucile alla testa, decisi subito di organizzarmi per non mancare al funerale».
Gianfranco racconta che uscì in calle per raggiungere la vicina agenzia di viaggi, poi si recò in Basilica «dove mi inchinai davanti alla Madonna della Nicopeia e le raccomandai il mio amico». La mattina seguente lasciò Venezia, senza valigia e senza borsa, «con in tasca solo il portafogli, il biglietto aereo e lo spazzolino da denti». Quando entrò nella bella villa Hemingway a Ketchum, incontrò il figlio Bumby, vicino alla rastrelliera, priva di fucili e doppiette: «Egli mi disse, dopo un momento di silenzio, che nella bara era stato difficile ricomporre la testa, non il corpo». Per non sfigurare alla cerimonia funebre, Gianfranco aggiunge: «dovetti andarmi a comperare un paio di pantaloni, una camicia e paio di mocassini di tipo indiano ». Al ritorno, lo alloggiarono nella camera che fu di Ernest: «Rimasi sorpreso di vedere una copia della Bibbia aperta sulla pagina O vanità, immensa vanità. Una generazione va, l’altra viene, eppure la terra sta ferma, e non c’è nulla di nuovo sotto il sole». Ma fu qualcos’altro che attirò l’attenzione di Gianfranco, fornendo forse la chiave per spiegare il suicidio: «Su un foglio intravidi la sua calligrafia deformata, una frase ripetuta, l’altra cancellata: riusciva a pensare, ma non a scrivere», e quando uno scrittore non è più in grado di scrivere non è neanche più capace di vivere. «Entrai poi in bagno e accanto al lavandino vidi pendere un pezzo di cartone, sul quale Ernest aggiornava il suo peso e la pressione del sangue». Il giorno del funerale, Gianfranco racconta che andò prima a fare una passeggiata nei dintroni: «In una tasca tenevo la cravatta e anche il pañuelo rojo, che mi aveva regalato Papa (Ernest)». L’inumazione si svolse al tramonto, allorché il prato del piccolo cimitero era già in penombra. Gianfranco era l’unico italiano tra le poche persone presenti. Appena i becchini calarono la bara «Svelto, Bamby li raggiunse e con il loro badile gettò della terra sopra le spoglie del padre. Io lo seguii, tolsi dalla tasca il mio pañuelo rojo e lo lasciai cadere nella buca, poi mi avvicinai a Mary e l’abbracciai ».
Gianni Moriani
438 – Il Piccolo 26/06/11 Jergovic: «Dall’esilio non si ritorna», lo scrittore bosniaco ha ricevuto il Premio intitolato a Tomizza
Jergovic: «Dall’esilio non si ritorna»
Lo scrittore bosniaco ha ricevuto il Premio intitolato a Tomizza, come lui “uomo di frontiera”
di Elisabetta d’Erme
TRIESTE La scelta del Lions Club Trieste Europa di assegnare allo scrittore bosniaco Miljenko Jergovic il Premio Tomizza 2011 dà voce ai principi più alti che muovono questa associazione. Il Premio, che in passato era andato a personaggi come Matvejevic e Pressburger, quest’anno è stato assegnato alla voce più pura, lucida e indipendente della letteratura proveniente dalle terre impossibili della ex Jugoslavia «per le sue qualità di interprete sensibile e abile narratore delle ingiustizie delle società di tutti i tempi, dove la concatenazione delle storie e delle vite esprimono con poetica la traccia dell’uomo». Miljenko Jergovic è nato nel 1966 a Sarajevo, un luogo – come ci dice – che «in linea d’aria dista da Trieste solo 400 km e che è dunque apparentemente molto vicino, ma che tuttavia per altri versi è molto molto lontano». Oggi risiede a Zagabria e fin dal 1994 – con l’opera d’esordio “Le Malboro di Sarajevo” – è stato tra i maggiori interpreti dei cambiamenti in atto nei Balcani dopo la disintegrazione della Jugoslavia. I suoi numerosi romanzi sono stati tradotti in 20 lingue e in Italia è edito da Zandonai, che dopo “Freelander” pubblicherà in autunno “Al dì di Pentecoste” per la traduzione di Ljiljana Aviroìvic. Lo scrittore, giornalista e cineasta ha dichiarato di sentire molto vicino il messaggio di tolleranza e dialogo tra diverse etnie lasciato da Tomizza che come lui è stato “un uomo di frontiera”. «Essere nato sui confini – afferma Jergovic, – è una complicazione per i sentimenti, ma aggiunge qualcosa in più al nostro sentirci umani». Durante l’affollata e intensa cerimonia, Vittorio Piccoli – riprendendo una dichiarazione dello scrittore che sosteneva che «l’arte non può migliorare il mondo» – ha sottolineato che la letteratura ha però la capacità di mettere a nudo «le scorie venefiche dell’umanità». Ed è infatti questo il mestiere di Miljenko Jergovic, protagonista di quella «sorta di strana storia parallela» alle violenze che fu la fioritura letteraria, artistica e musicale iniziata venti anni fa nelle repubbliche della ex Jugoslavia. «Ma l’arte – ricorda Jergovic, – non poteva fermare la guerra, né cambiare la storia di queste terre, e terminato il conflitto è subentrato un periodo di depressione: le guerre sono finite senza vincitori. Le vittime non hanno avuto giustizia e per gli aggressori non c’è stata catarsi. Il risultato è una grande depressione collettiva». Un mondo davvero enigmatico quello dei Balcani, che Miljenko Jergovic descrive popolato da identità in bilico. Diversità e ambiguità che traspaiono dai doppisensi e dall’uso delle diverse lingue: «Il mondo multiculturale presuppone il gioco continuo tra diverse identità. Nel mia scrittura – dice, – cerco sempre di mantenere l’idea di complessità di questo mondo e le difficoltà della lingua. E’ pericoloso semplificare le cose, in particolare se si vive sulle frontiere, perché la semplificazione porta all’odio». Ed è per questo che nell’agenda di Miljenko Jergovic è sempre attuale l’analisi del passato, di quella “Storia” che Joyce descrive come “un incubo” dal quale bisogna cercare di svegliarsi. Jergovic sta ora lavorando con Slavko Goldstein a una sceneggiatura sul grande campo di concentramento che è stato in funzione tra il 1941 e il 1945 a Jasenovac. Goldstein, combattente antifascista durante la Seconda Guerra Mondiale ed attivo nella comunità ebraica croata, «è l’editore più glorioso della storia della Jugoslavia – ci informa l’autore, – ed è stato anche il coraggioso editore di Danilo Kiš». Come per Tomizza, anche per questo scrittore che la Storia ha esiliato dalla sua terra, la scrittura non può essere la metafora del ritorno: «Il ritorno a casa è impossibile – esclude Jergovic. – Lo vivo sulla mia pelle e lo testimonio con le mie esperienze. Per poter tornare a casa non basta disporre di un’automobile, dovremmo avere una macchina del tempo e, visto che neanche Spielberg riesce a produrne, parlare di ritorno a casa è impossibile».
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Posted on July 5, 2011