Rassegna Stampa Mailing List Histria – 17 giugno 2011

Posted on June 17, 2011


Rassegna Stampa Mailing List Histria
Sommario N° 780 – 17 Giugno 2011

A cura di Stefano Bombardieri
Rassegna Stampa della ML Histria anche in internet ai seguenti siti :
https://10febbraiodetroit.wordpress.com/
http://www.arcipelagoadriatico.it/

393 – La Voce del Popolo 13/06/11 Cultura – A Buie il tradizionale raduno Mailing List Histria, in primo piano la premiazione dei vincitori del concorso letterario (Daniele Kovačić)
394 – La Voce del popolo 13/06/11 Cultura – La regista italiana Cristina Mantis conquistata dall’Istria, presentato un documentario che parla di esuli e rimasti in cucina. (dk)
395 – Voce del Popolo 14/06/11 All’ombra della maestosa Arena il Raduno degli esuli da Pola, quest’anno alla 55 ° edizione, il ritorno al luogo natio. (dd)
396 – Anvgd.it 13/06/11 Barbi: la visione europea della tragedia giuliano-dalmata (Patrizia C. Hansen)
397 – Il Piccolo 09/06/11 In Istria si vende un paese intero, boom del mercato immobiliare con prezzi alle stelle (p.r.)
398 – La Voce del Popolo 16/06/11 Fiume – Celebrazione di San Vito: «Il ruolo fondamentale della famiglia» (pb)
399 – La Voce del Popolo 15/06/11 Fiume – L’incontro tra sindaco ed esuli con l’occhio rivolto al futuro (Tamara T.)
400 – L’Eco di Bergamo 17/06/11 Dall’Istria a Dalmine, i 100 anni di Maria (Daniele Cavalli)
401 – La Voce del Popolo 15/06/11 :L’autostrada istriana ora va da Pola al confine con la Slovenia (Lara Musizza)
402 – La Stampa 11/06/11 Ottavio Missoni: “Ma la mia Dalmazia uccisa da titini e fascisti non tornerà mai più” (Maria Giulia Minetti)
403 – La Voce in più Dalmazia 11/06/11 Il Prologo – Viva (zivio) Marko Polo Dalmatinac (Dario Saftich)
404 – Difesa Adriatica – giugno 2011 Gli Esuli e l’Unità d’Italia: l’ombra del dubbio (Patrizia C. Hansen)
405 – La Voce del Popolo 09/06/11 Cultura – A Fiume non ci sono italiani ( 2ª parte e fine)
406 – La Voce del Popolo 30/05/11 – Un pieghevole per conoscere il comune patrimonio culturale veneziano sulle due coste adriatiche (Kristjan Knez)
407 – Il Piccolo 15/06/11 Lombardo e il Buie una promozione fatta di gioco e allegria
408 – Il Piccolo 14/06/11 Ma Cadorna non merita la via che Trieste gli ha dedicato, gli storici ritengono che la disfatta di Caporetto sia una diretta conseguenza della sua folle tattica militare (Ferdinando Camon)

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393 – La Voce del Popolo 13/06/11 Cultura – A Buie il tradizionale raduno Mailing List Histria, in primo piano la premiazione dei vincitori del concorso letterario
IN PRIMO PIANO LA PREMIAZIONE DEI VINCITORI DEL CONCORSO LETTERARIO
A Buie il tradizionale raduno Mailing List Histria
BUIE – Una tre giorni dedicata al 11º raduno della Mailing List Histria, l’associazione che raggruppa alcuni esuli dell’Istria, di Fiume, della Dalmazia e del Montenegro, che ogni anno organizza un concorso letterario per le scuole della CNI. Quest’anno sono stati 163 gli elaborati pervenuti, ai quali hanno partecipato ben 272 alunni. Una quindicina i testi pervenuti dalla Dalmazia e dal Montenegro. Da segnalare un record numerico: 43 i temi realizzati dalla SEI “Galileo Galilei” di Umago con la sezione periferica di Bassania.
I titoli proposti quest’anno alle scuole elementari, per quanto concerne i lavori individuali, erano: “Sfogliando l’album delle foto di famiglia, vedo i bisnonni, i nonni, i miei genitori e sento che anch’io ho una storia da raccontare”, “Cosa ci racconta una vecchia cartolina” e “Volere bene agli animali”. Per quanto riguarda i lavori di gruppo, le tracce erano: “Rispetto e amore per la natura”, “2011: lo Stato italiano compie 150 anni… un vecchietto pieno di acciacchi o un giovincello che si farà?” e “L’attività e il lavoro dei nostri nonni”.
Per le scuole medie superiori (lavori individuali) proposti i titoli “Tracce di italianità nel territorio in cui vivi”, “Non nel mio giardino… parlate del conflitto tra pubblica utilità e interesse personale” e “Che significato ha per te il 150° anniversario dell’Unità d’Italia”. In gruppo, gli allievi potevano occuparsi di ecologia con “La raccolta differenziata dei rifiuti”, scegliere “Fin dalla preistoria l’acqua è stata il primo mezzo di comunicazione tra gli uomini: guardo il mio bellissimo mare e penso…”, oppure “Istria e Dalmazia a confronto”.
Il Presidente del Senato, Renato Schifani, ha inviato un caloroso saluto a tutti i partecipanti, ricordando i 150 anni dell’Unità d’Italia. Il presidente della Giunta Esecutiva UI, Maurizio Tremul, presente in sala, ha rilevato che “con queste iniziative che partono dal basso, si conferma quella volontà da parte di tutti di collaborare nel segno dell’amicizia tra gli esuli e i rimasti, tra i diversi popoli”.
I VINCITORI DELLE ELEMENTARI
Per la categoria dei lavori individuali il primo premio è stato assegnato a Niccolò Dino Continolo (VII classe) della SEI “Giuseppina Martinuzzi” di Pola. Alla stessa scuola va il secondo premio per il testo di Gaia Sirotić (IV classe); terzo posto per Kris Dassena, che ha partecipato a nome della Comunità degli Italiani “Dante Alighieri” di Isola.
Nella categoria dei lavori di gruppo, invece, sono saliti sul gradino più alto del podio Martina Matijašić, Paola Sertić, Antonia Pertić, Carlos Sepić, Iris Kljiaić, Melissa Boccali, Paolo Biloslavo, Adriana Parma, Nensy Damiani, Ariana Biloslavo, Marko Pertić, Paola Matijašić, della Sezione periferica di Momiano (SEI “Edmondo De Amicis” di Buie).
Il secondo premio, invece, è stato assegnato al lavoro di Alan Vincoletto e Manuel Fischer della SEI “Pier Paolo Vergerio il Vecchio” di Capodistria. Terzo premio per Federica Glišić Rota, Timothy Lakošeljac, Timoti Cociancich, Luca Vigini, Leo Savić, Gaia Vežnaver, Niko Vulić, Antonio Degrassi, e Ivan Savić, della Sezione periferica di Bassania (SEI “Galileo Galilei” di Umago).
I VINCITORI DELLE MEDIE SUPERIORI
Per quanto riguarda i lavori individuali, vincitrice assoluta Martina Ivančić di Rovigno, IV classe, Liceo Scientifico – Matematico. Secondo posto per Chiara Bonetti, II classe, Ginnasio “Leonardo da Vinci” di Buie. Terza classificata Valentina Vatovec, che ha partecipato a nome della CI “Dante Alighieri” di Isola.
Nella categoria dei lavori di gruppo a ritirare il primo premio sono stati Sara Resanovič Bevitori e Massimiliano Bevitori della CI “Dante Alighieri” di Isola. Secondi classificati Ilaria Valenta, Katerina Visintin e Ilaria Vižintin della SMSI “Leonardo da Vinci” di Buie. Terzo posto per Petra Bajić ed Enid Vidaček della SMSI “Dante Alighieri” di Pola.
PREMI SPECIALI
Oltre ai premi ordinari, la MLH ha istituito una serie di premi speciali, tra i quali il Premio associazione per la cultura fiumana, istriana e dalmata nel Lazio, un premio speciale è stato assegnato dal periodico degli esuli polesani europeisti “Istria – Europa”, il Premio speciale dei dalmati alla memoria di Alessandro Boris Amisich ed un Premio speciale alla memoria del capitano Antonio (Tonci) Neumann, quest’ultimo andato alla SEI “Edmondo De Amicis” di Buie.
Anche i Liberi comuni di Pola e Fiume in esilio hanno voluto regalare un premio: a Buie, sede ospitante del raduno di quest’anno, è dedicato il premio intitolato a Luciano e Fiorella Bonetti.
Il raduno continua nella giornata odierna, con in programma la presentazione del libro di Olindo Mileta “Chiudere il cerchio”, opera in due volumi che porta delle testimonianze e delle memorie, nel primo volume, dall’inizio del ‘900 al secondo conflitto mondiale.
A completare la storia, il secondo volume, che analizza in toto la Seconda guerra mondiale.
L’incontro letterario, con inizio alle 19, vedrà pure salire sul palcoscenico del sodalizio buiese il musicista Mario Fragiacomo, che suonerà su testi in dialetto rovignese di Gianclaudio De Angelini.
Daniele Kovačić

394 – La Voce del Popolo 13/06/11 Cultura – La regista italiana Cristina Mantis conquistata dall’Istria, presentato un documentario che parla di esuli e rimasti in cucina.
PRESENTATO UN DOCUMENTARIO CHE PARLA DI ESULI E RIMASTI E DI CUCINA
La regista italiana Cristina Mantis conquistata dall’Istria
BUIE – Una storia dai significati profondi che parla di esuli, di rimasti, ma anche di prelibatezze culinarie istriane. Si tratta del documentario dal titolo “Magna Istria”, presentato sabato in occasione del raduno della Mailing List Histria presso la CI di Buie. In sala la regista dell’opera, Cristina Mantis, assieme alle autorità, tra cui la presidente del sodalizio buiese, Lionella Pausin Acquavita, e il presidente dell’Assemblea dell’UI, Furio Radin.
L’evento è stato un’ottima occasione per una chiacchierata con la regista, Cristina Mantis. “Quando sono stata invitata a fare questo film non conoscevo molto l’Istria. L’idea era di raccontarla attraverso il cibo; ci voleva, però, una trama, una storia filmica. Ho pensato che vista la rinomanza della cucina istriana e la conoscenza con Francesca Angeleri, nipote di esuli, si sarebbe potuto realizzare qualcosa di bello”.
Nell’introduzione troviamo Francesca che perde il libro di ricette della nonna e si mette alla ricerca di Magna Istria, il prezioso documento. “In questo lungo viaggio – racconta la regista – la ragazza fa un’escursione nella storia. La pellicola tratta di molti argomenti, ma la prima urgenza è stata quella di parlare di qualcosa di cui si sa pochissimo. L’indignazione personale (per la poca informazione, nda.), in quel momento mi ha portato a voler cavalcare l’onda di questo sentimento”. La Mantis si è sentita, così, partecipe di un mondo che, anche se non le appartiene, vede come un luogo accogliente e disponibile, oltre che morfologicamente bello.
SERVE PIÙ INFORMAZIONE
Qualche accorgimento sulla situazione italiana l’ha fatto: “Non è giusto che in un momento come questo, in cui l’Italia si sta svegliando, noi non facciamo i conti con quella che è davvero la nostra storia – ha sottolineato in modo deciso – è impossibile che giovani generazioni crescano non sapendo che l’Istria era italiana, che tutta la vicenda dell’esodo è stata insabbiata volutamente”.
La regista fa, poi, riferimento alla poca informazione su quella che è oggi la Comunità Nazionale Italiana. “Mentre giravo il documentario ho conosciuto svariate persone, sia esuli che rimasti. Questo mi ha consentito di avere una panoramica completa e obiettiva (fondamentale per un documentario) della situazione.
Alcuni intervistati mi hanno fatto capire che partire o restare è stato doloroso per tutti. Il documentario è un po’ una pennellata di quello che è successo in Istria. Forse avremmo dovuto lasciare un po’ di spazio in più ai rimasti, ma la storia partiva dall’Italia e dagli esuli, per cui per la produzione è stata quasi un’induzione concentrarsi di più sugli esuli”.
“La vita è sempre una questione di incontri. L’incontro con una persona, con un luogo, è questione di chimica. Io al primo impatto con l’Istria ho percepito subito un’alchimia forte – così Cristina Mantis descrive le sue sensazioni per una regione geografica davvero unica al mondo -.
Se non fosse stato così, se non avessi avuto queste sensazioni, non avrei potuto fare questo documentario. Quest’identità istriana dove convergono diverse etnie determina il suo fascino. Non si può dare un’identità precisa: sono tante e si fondono. È questa la cosa fantastica dell’Istria. Ho trovato dei luoghi autentici. Una bella gioventù. C’è freschezza; per non parlare della cucina, delle ‘granseole’, dei tartufi e del vino”. Infine un appello ai giovani: “Ragazzi, godetevi la vostra Istria e continuate a difendere la vostra terra!” (dk)

395 – Voce del Popolo 14/06/11 All’ombra della maestosa Arena il Raduno degli esuli da Pola, quest’anno alla 55 ° edizione, il ritorno al luogo natio.
QUEST’ANNO ALLA 55.ESIMA EDIZIONE, IL RITORNO AL LUOGO NATIO
All’ombra della maestosa Arena il Raduno degli esuli da Pola
Non c’è famiglia italiana a Pola che non abbia avuto un ramo spezzato dall’esodo. E non c’è italiano del Dopoguerra che non abbia vissuto il trauma, a prescindere dalla parte del confine dalla quale lo si guardi. Oggi, sessantaquattro anni dopo, gli esuli tornano nella loro città per il 55º Raduno Nazionale degli Esuli da Pola, il primo che si terrà per l’appunto nella città natale lasciata dopo l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia.
Che si tratti di un evento di primo piano è fuori dubbio. Non che prima d’ora l’associazione degli esuli polesani non abbia intrattenuto rapporti di collaborazione con le associazioni dei rimasti, anzi. Sono anni, ormai, che il Libero comune di Pola in Esilio e la Comunità degli Italiani di Pola si danno appuntamento al Duomo polese per commemorare le vittime della strage di Vergarolla.
E sono almeno vent’anni – come ha avuto modo di dichiarare da poco il presidente Fabrizio Radin – che la Comunità degli Italiani di Pola tiene la sua porta spalancata per i rapporti con gli esuli. Ciò nonostante, l’annuale incontro degli esuli polesi non ha mai messo piede nella terra natale. Ed oggi si vuole ovviare a tanto.
Così, a partire da giovedì 16 e sino a domenica 19, Pola ospiterà il 55º Raduno Nazionale degli Esuli, per il quale la Comunità degli Italiani è pronta a fare la sua parte in termini di assistenza e accoglienza. Per l’occasione sono attesi in città circa 180 esuli, che troveranno sistemazione in prevalenza presso l’albergo “Riviera”. Il programma della serata dell’arrivo prevede le “due ciacole di benvenuto con aperitivo” alle 19,30, a seguire la cena e, con inizio alle 21,15, la riunione di Consiglio.
Più impegnativa, invece, la giornata di venerdì 17 giugno. Alle 9 avrà inizio l’atteso incontro con i connazionali presso la Comunità degli Italiani. Alle 10,30 ci s’imbarcherà per una gita alle isole Brioni. Alle 16,30 è in programma l’Assemblea generale dei Soci mentre alle 20, nel corso della cena, avrà luogo un incontro con Stefano Zecchi ed Erica Cortese per il conferimento della benemerenza “Istria terra Amata” per il contributo alla diffusione della storia degli esuli a livello nazionale.
Sabato mattina ci si recherà in visita alle cittadine di Valle e di Dignano dove avranno luogo altri due incontri con i connazionali delle rispettive località presso le due Comunità degli Italiani. Sulla via del rientro seguirà il pranzo a Fasana e quindi, in serata, la cena e l’intrattenimento alla CI polese con inizio alle 20.
Domenica 19, ultimo giorno del Raduno, un momento solenne, a partire dalle ore 9, con la santa messa cantata e concelebrata dal vescovo Mons. Eugenio Ravignani e da Mons. Desiderio Staver. Immancabile l’apporto del coro misto della “Lino Mariani”. Al termine della funzione religiosa, i polesi esiliati si ricomporranno in gruppo per una foto che già si definisce “storica”. Alle 11,30 la comitiva sarà al Cimitero della Marina per la cerimonia dello scoprimento, presso il Sacrario italiano, di una targa commemorativa dei caduti del cacciatorpediniere “Rossarol”, inabissatosi al largo di Lisignano il 16 novembre del 1918 per l’impatto con una mina. Alle tredici il pranzo di “commiato”, durante il quale sarà formulato l’arrivederci al prossimo anno. (dd)

396 – Anvgd.it 13/06/11 Barbi: la visione europea della tragedia giuliano-dalmata
Barbi: la visione europea della tragedia giuliano-dalmata

Con la scomparsa del sen. Paolo Barbi, avvenuta venerdì 10 giugno a Napoli, l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia che lo ebbe presidente per tre decenni perde uno dei suoi rappresentanti più significativi, sia per la sua statura politica e culturale sia per il suo ruolo di guida del maggiore sodalizio rappresentativo in Italia degli Esuli dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia in un frangente storico complesso e segnato, tra l’altro, dalla firma del trattato di Osimo nel 1975.
Era nato a Trieste nel 1919 da genitori dalmati, originari dell’isola di Lesina. L’impronta dalmata, riconoscibile nel carattere forte e schietto dell’uomo, avrebbe maturato in lui la sensibilità e l’attenzione per la questione del confine orientale investito dalla tragedia della guerra e dell’occupazione jugoslava e delle comunità italiane di quei territori, costrette all’esodo dalle violenze del regime comunista di Tito e rinate in Italia nelle diverse città di insediamento dopo lunghe permanenze nei campi profughi o in ricoveri di fortuna in condizioni di estremo disagio e marginalità.
Docente di Storia e Filosofia nella Scuola militare della Nunziatella, Barbi intraprese nel 1958 una fortunata e meritata carriera politica nelle fila della Democrazia Cristiana, del quale fu deputato per ben quattro legislature e senatore dal 1976 al 1979, rivestendo anche la carica di Sottosegretario di Stato nei Governi Leone (1968), Rumor (1969-1970) e nel quarto Governo Andreotti e membro di molte Commissioni, sia alla Camera che al Senato. Alle prime elezioni a suffragio universale per il Parlamento europeo (1979), venne eletto ed aderì al gruppo parlamentare del Partito Popolare Europeo, del quale fu capogruppo negli ultimi due anni di quella legislatura e membro delle Commissioni per il Bilancio e Politica.
Nel 1975 si trovò a dover affrontare, da dalmata e da dirigente dell’Associazione, la controversa vicenda del trattato di Osimo, preparato in tutta segretezza e firmato per l’Italia dal presidente del Consiglio Mariano Rumor, che sanciva la definitiva cessione della Zona B dell’ex Territorio libero di Trieste, ovvero dell’Istria nord-occidentale, alla Jugoslavia.
Il primo trattato internazionale, riportano le cronache, non curato dal Ministero degli Affari Esteri ma i cui negoziati erano stati affidati ad un dirigente del Ministero dell’Industria. Nell’acceso dibattito parlamentare che si sviluppò, a fronte anche di una considerevole sollevazione dell’opinione pubblica e particolarmente delle comunità esuli in Italia, Barbi presentò interpellanze, pronunciò un fermo intervento critico ed espresse, all’opposto di tutto il suo partito e di PSI, PCI, PSDI e PRI, voto contrario.
Cattolico democratico, fu europeista convinto ed il primo a guardare alla questione degli Esuli giuliani e dalmati in una cornice europea. In uno dei suoi ultimi articoli, apparso nel marzo 2011 su “Difesa Adriatica”, il mensile dell’ANVGD, Barbi scriveva tra l’altro: «Dunque il ricordo dell’esodo giuliano-dalmata, oggi dopo sessant’anni, deve servire a tutti – non solo a noi italiani – per capire quanti e quali disastri umani hanno prodotto la dottrina e la prassi del nazionalismo sciovinista e della “conflittualità naturale” degli individui e dei popoli. E anche per prender coscienza dell’inestimabile valore della costruzione unitaria europea, fondata invece sulla naturale socialità e sulla solidarietà delle persone, sulla sussidiarietà e sulla cooperazione delle loro organizzazioni politiche.
Quindi il Giorno del Ricordo non può esser considerato solo come una sorta di consolazione per gli Esuli […] o magari anche un modo per riparare l’umiliante, insopportabile, lungo oblio dei loro così gravi sacrifici, affrontati consapevolmente per continuare ad essere liberi e parte integrante della nazione italiana. Deve essere, invece, soprattutto l’occasione per far conoscere bene tutto ciò anche alle nuove generazioni – che non hanno avuto la triste sorte di vivere quelle guerre, quei massacri, quelle deportazioni di intere popolazioni dalle loro terre di origine – e per educarle al federalismo europeo».
La sua visione politica travalicava la dimensione nazionale in favore di una proiezione continentale nella quale le ingiustizie e le sofferenze delle popolazioni colpite dai lutti del conflitto e dell’intolleranza ideologica ed etnica dei totalitarismi del Novecento avrebbero trovato il giusto riconoscimento ed un pur tardivo, ma indispensabile, lenimento. E difatti proprio la caduta del Muro di Berlino e il disfacimento del vecchio assetto geo-politico derivato dagli accordi di Yalta e dalla Guerra Fredda avrebbero finalmente permesso alla pubblica opinione e ai governi di riconoscere, finalmente, la realtà delle persecuzioni ai danni della popolazione italiana autoctona nei territori ceduti all’ex Jugoslavia, così come quanto aberranti fossero i sistemi coercitivi dei regimi di quel che si chiamava il Blocco sovietico.
Nei suoi ultimi anni, e benché provato da precarie condizioni di salute, continuò a seguire puntualmente i lavori della sua Associazione e l’evoluzione della più generale situazione politica italiana. Nel 2003 diresse con energia, a Roma, il XVIII Congresso nazionale dell’ANVGD, portando il suo contributo di esperienza e di conoscenze al dibattito interno; dall’istituzione del Giorno del Ricordo, nel 2004, curò annualmente le relazioni con le amministrazioni pubbliche della sua città di residenza, Napoli, per l’organizzazione di adeguate celebrazioni istituzionali, alle quali partecipò sin quando gli fu possibile. Nel 2007, al Quirinale, pronunciò il discorso ufficiale nella solenne commemorazione alla presenza del Presidente Napolitano.
«Quello delle Foibe – disse tra l’altro in quella circostanza – è stato un fatto drammatico, inumano, terrificante e perciò fortemente impressionante. […] Fu l’esplosione delle vendette e degli odi covati nell’esasperazione nazionalistica durata decenni e nel clima della guerra totale, impietosa, dei regimi totalitari. Si manifestò già dopo l’8 settembre ‘43 e poi alla fine della guerra nel maggio-giugno ‘45. Creava terrore: e proprio perciò fu cinicamente incoraggiato e utilizzato dal nuovo potere jugoslavo come brutale, passionale strumento per attuare un progetto razionalmente concepito e freddamente realizzato: la radicale pulizia etnica – questa pessima degenerazione novecentesca del nazionalismo romantico dell’800 – dell’Istria e della Dalmazia».
Ed ancora, di fronte alle più alte cariche dello Stato:
«Nel ’46 non si infoibava più: ma si utilizzava la fuga terrorizzata di gran parte della popolazione italiana per sostenere alla Conferenza di Versailles le pretese annessionistiche slave, che furono sancite nel Trattato di pace imposto all’Italia sconfitta, semidistrutta, umiliata, il 10 febbraio ’47. Questo è il fatto più grave, di portata storica, che non riguardò solo alcune migliaia di vittime delle foibe, ma determinò l’esodo di un intero popolo». «Le esigenze della politica italiana nel quadro della situazione internazionale creata dalla “guerra fredda” e dalla “eresia” titina determinarono un atteggiamento generale di rimozione della questione adriatica […] per cui anche i partiti e gli uomini che più avevano detto e fatto per la causa istriana furono indotti a considerare con fastidio le nostre valutazioni e le nostre richieste, fino al punto di imporci con procedure subdole l’affronto dell’inutile trattato di Osimo nel ’75.
Non era più l’ostilità aperta della fazione comunista degli anni ’40. Era, per noi, qualcosa di peggio: la freddezza, l’indifferenza, la scomparsa della solidarietà in tutta la comunità nazionale. L’Italia libera e democratica per cui avevamo sacrificato tutto sembrava volerci ignorare, cancellarci. Persino – fatto di incredibile gravità! – negli studi storici, nell’insegnamento universitario, nei testi scolastici eravamo quasi totalmente ignorati. E vana fu, in tutti quegli anni, la nostra denuncia di quella vergogna della cultura italiana. Erano sordi che non volevano sentire».
Ciò nonostante, e ormai palesatasi la fine del lunghissimo dopoguerra, proseguiva: «La nostra identità è costituita, certamente, dalla cultura, dalla lingua, dalla religione, dalle tradizioni popolari; ma anche – ed in modo del tutto particolare – dalla secolare esperienza civica, sociale e politica che ha prodotto forme storicamente collaudate di pluralismo linguistico, di integrazione sociale, di fede e ad un tempo di tolleranza religiosa, di sviluppo economico, di convivenza pacifica. Un’identità, questa, che l’esasperato nazionalismo sciovinistico otto-novecentesco ha cercato di deformare, amputandone, la parte socio-politica e usando i valori culturali e linguistici come strumento della sua teoria conflittualistica e della sua rovinosa – e per noi giuliano-dalmati fatale – prassi bellicista».
Sempre vigile e partecipe del dibattito politico e giornalistico, non più tardi del 10 Febbraio di quest’anno Barbi protestò pubblicamente e con al sua consueta energia per il basso profilo delle cerimonie tenutesi nella sua Regione, e rimarcando la finalità non soltanto «politica», nel senso più alto del termine, ma finanche «educativa» del Giorno del Ricordo, perché utile alle nuove generazioni per comprendere la storia e quanto possano essere tragiche le sue dinamiche.
Di Paolo Barbi restano molte eredità, come si conviene ad una personalità di alto profilo intellettuale ed umano: non ultima, e coerente con le sue origini e con la sua educazione, l’onestà personale – qualità rara sul mercato contemporaneo – e la passione per la memoria delle vicende della Venezia Giulia e della sua Dalmazia, coltivata veramente sino all’ultimo e con la lucidità propria dei grandi testimoni.

Patrizia C. Hansen

397 – Il Piccolo 09/06/11 In Istria si vende un paese intero, boom del mercato immobiliare con prezzi alle stelle
In Istria si vende un paese intero

Boom del mercato immobiliare con prezzi alle stelle. Ad Abbazia una villa offerta a 8 milioni di euro

POLA Nonostante il fatto che la crisi economica si sta riflettendo anche sul mercato immobiliare, rimane alle stelle il prezzo di certe ville, case e abitazioni ubicate nelle posizioni top: a un passo dal mare o nel centro storico delle maggiori località’ istriane. Gli addetti ai lavori, ma anche i semplicemente i curiosi stanno aspettando di vedere in quali mani finirà la lussuosa villa sul mare a Umago in vendita al prezzo di 1,2 milioni di euro, altrimenti detto 8 mila euro al metro quadrato. L’agente immobiliare afferma che l’interesse non manca e a farsi avanti sono soprattutto potenziali acquirenti sloveni e italiani che stanno dando la caccia a ville del genere , proprio sul mare tra Parenzo e Umago. Il loro costo varia all’incirca da 600mila a 1,2 milioni di euro. Alle agenzie di Pola le telefonate, i fax e le e-mail arrivano soprattutto da cittadini russi che comunque ultimamente procedono con il freno a mano un po’ tirato. Al momento sembra che l’immobile più costoso in Istria sia una villa di età austroungarica ad Abbazia offerta per 8 milioni di euro. Segue una villa sul mare a Fasana dirimpetto alle Isole Brioni, che viene messa in vendita per 5 milioni. Sono degne di segnalazione anche una bellissima villa rustica con piscina a Salvore a 1,7 milioni ,una casa a due piani a Gimino a 920mila euro e a Stignano (sul mare) una casa di 220 mq con 10 stanze a 700mila euro. Viene offerto anche un antico castello in rovina, senza precisare dove, per 400mila euro. A Cabrunici, piccolo borgo ai lati della strada regionale Dignano–Sanvincenti, sono in vendita case in pietra in stile rustico con piscina di recente costruzione a 840mila euro. In questo caso siamo distanti dal mare 15 chilometri, però ciò che non manca sono sicuramente la pace e la tranquillità. A detta degli agenti immobiliari i prezzi richiesti sarebbero spropositati. A parità di prezzo dicono, all’ estero si possono acquistare ville e case sicuramente di livello superiore. Qualcosa comunque si riesce a vendere, affermano in un’agenzia di Rovigno, precisando che in questa città istriana i più attivi acquirenti sono i russi e gli inglesi. Sta attirando l’attenzione la vendita al gran completo del villaggio di Bencici nel territorio pinguentino. Ci sono in pratica 36 case e stalle abbandonate più 80 ettari di terreno nel circondario. Un po’ come il villaggio di San Giorgio nel comune di Grisignana acquistato a suo tempo non senza problemi procedurali, dal presidente della Regione Istriana Ivan Jakovcic. Ivana Beljan del portale Crozilla dice che i prezzi degli immobili lungo la costa crescono con l’ arrivo della primavera e dei primi turisti. In Istria l’interesse maggiore, afferma, è per le case tipiche e in pietra ubicate a Pola, Medolino e Parenzo. E le richieste di informazioni arrivano perlopiù dall’ Italia, dalla Germania, dalla Svizzera, dalla Slovenia, dall’Olanda, dal Belgio, dall’Austria, dalla Polonia, dal Canada e dalla Svezia.

p.r.

398 – La Voce del Popolo 16/06/11 Fiume – Celebrazione di San Vito: «Il ruolo fondamentale della famiglia»
CELEBRAZIONE DI SAN VITO: LA MESSA IN ITALIANO OFFICIATA DA MONS. EUGENIO RAVIGNANI
«Il ruolo fondamentale della famiglia»
“La famiglia ha una responsabilità primaria nella formazione dei figli della fede. Non è certo un impegno facile, ma è un dovere trasmettere ai figli la nostra tradizione cristiana”. Sono queste le parole pronunciate da monsignor Eugenio Ravignani, vescovo emerito di Trieste, nel corso della Santa Messa in italiano tenutasi nella Cattedrale di San Vito nell’ambito delle celebrazioni del Santo patrono della città.
In un’atmosfera solenne, in una chiesa gremita di fedeli, sulle note degli inni sacri intonati dal coro dei Fedeli Fiumani, a raccogliersi in preghiera sono state anche le associazioni degli esuli fiumani, che ogni anno ritornano ad onorare i Santi Vito, Modesto e Crescenzia patroni della città, e il Console Generale d’Italia a Fiume, Renato Cianfarani.
Monsignor Ravignani ha proseguito nell’omelia soffermandosi sulle nuove generazioni: “Inquiete tra ricerca e rifiuto, tra abbandono e impegno della dimensione spirituale e soprannaturale della vita. Ma anche esigenti nel chiedere assoluta autenticità e concretezza, libertà e autonomia nel decidere la propria vita, radicalità nelle scelte personali di coerenza evangelica, impegno nella società nella gratuità del servizio offerto nel volontariato”.
Al termine del rito religioso, ai fedeli fiumani si è rivolto mons. Ivan Devčić, arcivescovo di Fiume, il quale si è soffermato sull’importanza del valore della famiglia e su due avvenimenti importanti per la Chiesa: la beatificazione di Giovanni Paolo II e la visita di Benedetto XVI in Croazia. Subito dopo, monsignor Devčić ha officiato la messa pontificia in lingua croata durante la quale ha consegnato, com’è ormai tradizione, le medaglie di San Vito a dieci fedeli laici in segno di riconoscimento per l’impegno profuso nell’ambito ecclesiastico. (pb)

399 – La Voce del Popolo 15/06/11 Fiume – L’incontro tra sindaco ed esuli con l’occhio rivolto al futuro
NUMEROSE LE PERSONALITÀ INTERVENUTE AL RICEVIMENTO IN MUNICIPIO
L’incontro tra sindaco ed esuli con l’occhio rivolto al futuro
Come da tradizione, il sindaco Vojko Obersnel ha ricevuto ieri, in occasione di San Vito, i rappresentanti degli esuli fiumani. La delegazione era accompagnata dal console generale d’Italia a Fiume, Renato Cianfarani, dalla presidente della Comunità degli Italiani di Fiume, Agnese Superina e dal presidente dell’esecutivo del sodalizio, Roberto Palisca.
“Per me è la prima volta che partecipo ai festeggiamenti di San Vito e so che si tratta di una ricorrenza importantissima per tutti i fiumani”, ha detto il console Cianfarani nel salutare i rappresentanti della Città. “Il prossimo ingresso della Croazia nell’Ue – ha aggiunto – contribuirà a rafforzare ulteriormente i rapporti di collaborazione tra Italia e Croazia e tra le varie istituzioni dei due Paesi”. ´
Dorotea Pešić-Bukovac, presidente dell’Assemblea cittadina, ha parlato dei vari progetti realizzati a Fiume, tra cui la piscina per i tuffi che ha portato a cinque il numero delle vasche di cui dispone il polo natatorio.
Parlando della storia della città, Amleto Ballarini, presidente della Società di Studi Fiumani, ha ricordato il forte legame esistente tra gli esuli e la loro città d’origine. “I giorni dell’esilio ci pesano nel cuore, ma il ritorno ha sanato le ferite”. Amleto Ballarini si è detto soddisfatto per come procede l’educazione in lingua italiana a Fiume che, come ha ricordato, “fiorisce sempre di più”. Parlando di storia ha sottolineato che “si possono commettere errori di forma”, ma si deve comprendere anche il fatto che “non siamo addestrati a fare i diplomatici”.
Il sindaco di Fiume si è detto propenso a parlare piuttosto del futuro e a “lasciare la storia agli storici”. “Ognuno ha una propria opinione soggettiva sui fatti”, ha precisato, aggiungendo di ritenere “molto più importante rivolgersi al futuro per consentire alle nuove generazioni condizioni di vita e lavoro migliori”. “Fiume offre le stesse possibilità a tutti, mentre alla minoranza italiana vengono garantite condizioni particolari e in questo senso la Città fa già parte dell’Unione europea”, ha precisato Obersnel.
Amleto Ballarini ha poi consegnato al sindaco di Fiume la nuova pubblicazione intitolata “Dall’esilio al ritorno”, ricordando i 50 anni d’esistenza della Società di Studi Fiumani. Soffermandosi sulla consegna dei premi al Liceo, ha sottolineato che “vogliamo consegnare i premi ai migliori, a prescindere dalla loro etnia. L’importante è che pratichino la cultura italiana”.
Agnese Superina ha invece ricordato l’importanza che riveste per gli esuli che si trovano in America e in Australia la rivista “La Tore”, che permette agli italiani d’oltreconfine di essere sempre aggiornati sugli avvenimenti in città. In occasione della settimana della cultura fiumana, la presidente ha ricordato l’opera di Giacomo Scotti “Fiume, cent’anni e più secoli alle spalle”, che è stata realizzata grazie al contributo del Consiglio per la minoranza italiana di Fiume.
Guido Brazzoduro, sindaco del Libero Comune di Fiume in esilio, ha sottolineato invece l’importanza degli scambi tra le due realtà. Ha ricordato che in collaborazione con il cimitero di Cosala è stata avviata l’opera di restauro delle tombe più significative, simbolo della cultura e della testimionianza italiane sul territorio. Con l’obiettivo di terminare i lavori l’anno prossimo, ha chiesto al sindaco aiuto per accelerere i tempi di realizzazione.
All’incontro hanno partecipato inoltre il vicesindaco di Fiume, Željko Jovanović, mentre in rappresentanza degli esuli c’erano pure Laura Calci-Chiozzi e Mario Stalzer, rispettivamente vicesindaco e segretario generale del Libero Comune di Fiume, e Marino Micich, segretario generale della Società di Studi Fiumani di Roma.
Tamara T

400 – L’Eco di Bergamo 17/06/11 Dall’Istria a Dalmine, i 100 anni di Maria
Dall’Istria a Dalmine, i 100 anni di Maria

Dalmine

Maria Fucci, meglio conosciuta a Dalmine con il cognome Biaggini del marito, compie oggi cento anni. La sua è una storia particolare e per comprenderla è necessario munirsi di un buon libro di storia.
Maria, infatti, è la testimonianza vivente delle travagliate vicende che hanno riguardato il Nord-Est italiano nel corso del Novecento. Figlia unica, nasce in Istria, nella cittadina di Cherso, che oggi si chiama Cres e si trova in territorio croato. Sposa Saverio Biaggini, che purtroppo viene a mancare prematuramente: durante la seconda guerra mondiale, infatti, si imbarca su una nave che purtroppo viene silurata. L’uomo e i suoi compagni vengono dichiarati ufficialmente dispersi nel marzo del 1943.
Nel frattempo nasce Anna Maria. Madre e figlia, finita la guerra, si trovano ad affrontare una tragedia forse ancora più grande del conflitto armato: nel
1947 l’Istria passa sotto il controllo della Jugoslavia di Tito e Maria decide di trasferirsi in Italia. Dichiarata esule, sbarca a Trieste e vive per due anni nella stanza di un oratorio, poi le viene assegnata un’abitazione a Gradisca d’Isonzo. Ancora oggi possiede quella casa e mantiene la residenza nel comune che l’ha accolta sessant’anni fa.
La figlia Anna Maria sposa Franco, che lavora nel settore siderurgico e negli anni si sposta spesso per lavoro, portando sempre con sé la moglie, i figli e la suocera. La famiglia da Gradisca e si trasferisce a Trieste, quindi a Taranto. Poi Franco viene assunto negli uffici della Dalmine a Milano, ma decide di fare il pendolare da Bergamo. È il 1970. Maria resta sempre accanto alla famiglia, occupandosi della casa e dei nipoti mentre il genero lavora a Milano e la figlia insegna alle scuole elementari di Dalmine. È proprio qui, dopo una breve parentesi a Costa Volpino, che la famiglia si stabilisce nel 1980.
A Dalmine in questi anni Maria ha trovato tanta accoglienza, in particolare nella parrocchia di Sforzatica Santa Maria, con cui ha condiviso anche il dolore della scomparsa di Anna Maria, nel 2006. Oggi le fanno gli auguri il genero Franco, i nipoti Manuela e Paolo, i pronipoti Andrea, Alessandra, Giovanni, Simone, Davide, con tutti i parenti e il parroco di Sforzatica Santa Maria, don Antonio Todeschini.

Daniele Cavalli

401 – La Voce del Popolo 15/06/11 :L’autostrada istriana ora va da Pola al confine con la Slovenia
IL TRACCIATO TRA CANFANARO E UMAGO DELLA IPSILON INAUGURATO
DALLA PREMIER JADRANKA KOSOR. APERTO AL TRAFFICO ANCHE IL SEGMENTO
DA STANZIA PELICETTI FINO ALLA STRADA PER MEDOLINO
L’autostrada istriana ora va da Pola al confine con la Slovenia
«È questa una viabile che ci porta verso l’Europa.
Proprio l’Istria ha fatto molto per l’ingresso della Croazia nell’Unione»
PARENZO – Otto mesi prima dei termini fissati, ieri mattina è stato ufficialmente inaugurato il tracciato autostradale di cinquanta chilometri tra Canfanaro e Umago, parte integrante dell’Ipsilon istriana. A questo vanno aggiunti gli otto chilometri del segmento da Stanzia Pelicetti fino alla strada per Medolino. Il troncone a pieno profilo è stato aperto al traffico dalla premier Jadranka Kosor, la quale ha espresso soddisfazione per la conclusione dei lavori a questo importante progetto. “Si tratta di un progetto di grande valenza, conclusosi in questo mese storico per la Repubblica di Croazia. Questa è una giornata storica, perché festeggiamo un altro grande successo nel campo del lavoro”, ha detto, aggiungendo che “fino al termine del 2014 l’Ipsilon sarà completamente ultimata e, allora, la Croazia sarà già membro dell’Unione europea.
TURISMO Secondo la premier l’inaugurazione dell’arteria rappresenta un grandissimo incentivo per il turismo nazionale e, in genere, per l’economia. Principalmente se si tiene conto che il novanta per cento di tutti i turisti arriva in Croazia in automobile. Per quanto riguarda la stagione turistica ormai alle porte, Jadranka Kosor ha espresso convincimento che sarà ricordata come la migliore in assoluto.
Nel corso del suo intervento, la premier ha rilevato che per questo tratto dell’Ipsilon dal Bilancio nazionale sono stati stanziati 475 milioni di kune. Un fatto che “dimostra come possiamo lavorare insieme, a prescindere dall’appartenenza politica”.
ORA LA CANFANARO-ROGOVIĆI Dopo che nel 2010 è stato aperto al traffico il segmento tra Canfanaro e Pola, ora è, quindi, toccato a quello tra Umago e Canfanaro. In questo modo, l’autostrada collega ora Pola al confine sloveno con un manto d’asfalto della lunghezza di 80 chilometri e, nel contempo, inizia il pagamento del pedaggio a sistema chiuso. L’investimento complessivo per la realizzazione della Pola-Umago è stato di 228 milioni di euro.
Il direttore della “Bina Istra”, David Gabelica, ha sottolineato che i lavori proseguiranno ora sulla Canfanaro-Rogovići, della lunghezza di 18 chilometri. Dovrebbero concludersi entro ottobre.
COLLABORAZIONE Ivan Jakovčić, presidente della Regione Istriana, ha sottolineato la collaborazione tra tutti i livelli del potere a carattere statale, regionale e locale, rilevando che questa è la formula migliore per realizzare quanto serve alla Croazia, ossia un’economia concorrenziale. “Questa strada dà sicurezza ai cittadini dell’Istria e ai suoi ospiti e offre all’economia la possibilità di essere concorrenziale. Molte regioni, nostre concorrenti, hanno una splendida infrastruttura – adesso ce l’ha anche l’Istria. Questa arteria ci porta verso l’Europa, alla quale apparteniamo e lì è il nostro posto. È stata proprio l’Istria ad avere dato un grande apporto per l’entrata della Croazia nell’UE e, i successi più recenti, sono successi del governo e di tutti noi orientati in modo europeo”, ha concluso Jakovčić, ringraziando la “Bina-Istra”, la francese “Bouygues”, quale compagnia portante, il governo e la premier Kosor la quale “ha riconosciuto l’interesse dell’Istria anche in questo grande progetto”.
VISITA ALL’ARCIVESCOVADO DI PARENZO E POLA… Nell’ambito del suo soggiorno nella Regione Istriana, la premier ha fatto visita ieri all’Arcivescovado di Parenzo e Pola e alla Basilica Eufrasiana. Accompagnata dai ministri Đuro Poijač, Božidar Kalmeta e Branko Bačić, nonché dal presidente della Regione, Ivan Jakovčić e dal sindaco di Parenzo Edi Štifanić, è stata ricevuta dal vescovo, monsignor Ivan Milovan, con il quale si è incontrata a porte chiuse. Sul restauro della Basilica, dal 1997 nel patrimonio culturale dell’UNESCO, è stata informata dal responsabile del progetto, Ivan Matejčić, il quale ha detto che viene ritenuta “la cattedrale paleocristiana meglio conservata al mondo”. La premier ha avuto occasione di ammirare i mosaici e di entrare nella capella memoriale, non ancora aperta al pubblico, nella quale si trovano il sarcofago e le reliquie dei martiri parentini San Mauro e Sant’Eleuterio.
…E ALLA STAZIONE DEL GASDOTTO La premier, nel corso della visita alla stazione di regolazione per la distribuzione del gas, ha espresso soddisfazione per il progetto di costruzione e di distribuzione del gas naturale nell’area dell’Istria settentrionale. Il direttore della “Plinara”, Dean Kocijančić, ha affermato che questa, intesa quale concessionario, nel 2010 ha firmato un contratto con la Regione. Riguarda una linea di 207 chilometri della rete distributiva a Umago, Cittanova, Parenzo, Orsera, Fontane, Rovigno e Albona per un investimento di 142 milioni di kune. Fino al 2015, dovrebbero venire ultimati 172 chilometri, mentre l’ampliamento fino ai 207 chilometri si prevede tra il 2016 e il 2020. Lo scorso anno, i primi quantitativi di gas naturale sono giunti agli utenti a Umago, precisamente nella zona industriale di Ungaria. Dall’inizio di gennaio, fino a questo momento, sono stati ultimati i progetti per circa 12,5 chilometri di rete distributiva per le Città di Parenzo, Umago, Rovigno e Albona.
Lara Musizza

402 – La Stampa 11/06/11 Ottavio Missoni: “Ma la mia Dalmazia uccisa da titini e fascisti non tornerà mai più”
Ottavio Missoni, stilista
“Ma la mia Dalmazia uccisa da titini e fascisti non tornerà mai più”

A chiedere a Ottavio Missoni (Ragusa, oggi Dubrovnik, 1921), forse il croato più conosciuto d’Italia, che ricordi ha del suo Paese natale, che effetto gli fa l’ormai imminente ingresso di Zagabria tra le capitali della Ue, la risposta arriva in forma di premessa: «Per cominciare, le devo dire che io non sono croato. Io sono dalmata, un “fratello della costa”, e nasco col passaporto italiano».

Col passaporto italiano? «Mio padre era ufficiale della Marina Imperial-Regia, ma dopo il 1918 l’Austria, sconfitta nella Grande Guerra, perde i territori balcanici e nasce la Jugoslavia indipendente. Ai dalmati della costa viene data la possibilità di scegliere: o il passaporto del nuovo Stato o il passaporto italiano. Mio padre sceglie l’Italia».

Perché? «All’epoca, sulla costa, tutti erano un po’ irredentisti, era anche una moda. Ma la ragione più profonda è che non siamo slavi, noi dalmati. La Dalmazia di etnie ne ha moltissime, ma da sempre noi della costa non siamo né balcanici né danubiani. Siamo mediterranei, attaccati alla cultura occidentale. Otto secoli di dominio veneziano avranno pur lasciato qualcosa!».

E dove è andata la sua famiglia, col passaporto italiano in tasca?
«A Zara, che faceva parte dell’ Italia e dove la popolazione era al 90 per cento italiana, ma di mille origini diverse. Mi ricordo che una volta un mio compagno di scuola si divertì a organizzare i campionati del mondo di calcio nel nostro liceo. C’era la squadra ungherese, la polacca, la francese, l’austriaca… Anche l’italiana, naturalmente. Però tutti dalmati, capisce? Anche oggi, per dire, il presidente degli esuli dalmati in Italia si chiama Toth, un nome ungherese».

La sua Croazia è molto stretta: non solo comprende unicamente la Dalmazia, ma dentro questo territorio quasi solo una città, Zara, che faceva parte dell’Italia…
«Una città meravigliosa. La vita era piacevole, libera, ricca».

I fascisti cercarono di italianizzare la provincia di Zara con metodi oppressivi, dittatoriali. Libertà? Poca, a leggere i libri di storia. «Ma questo riguardava la provincia, ha detto bene, l’entroterra slavo, ed era un sopruso vergognoso. In città il metodo oppressivo non si sentiva. Erano tutti italiani, come le ho detto. Da qualunque parte fossero arrivati secoli prima, Venezia li aveva resi italiani. Italiani di cultura, di testa, anche se io preferisco dire “mediterranei”. La lingua che si parlava era il veneto».

Quando lasciò Zara?. «L’ultima volta che vidi mia madre a casa nostra era il Natale del 1941. Partii per l’Africa, fui fatto prigioniero. Quando tornai nel 1945 la mia famiglia si era trasferita a Trieste e Zara era stata rasa al suolo. Tremila morti sotto le bombe, mille annegati, le foibe di Zara si chiamavano Mare Adriatico, sedicimila italiani costretti ad andare via per non essere ammazzati. Sedicimila da Zara, 360 mila da tutta la Dalmazia. Noi siamo stati “liberati” dai comunisti di Tito, non dagli alleati».

Cosa si aspetta dall’ingresso della Croazia nella Ue? «Che almeno si possano creare scuole italiane senza gli infiniti ostacoli finora frapposti. Che la croatizzazione forzata della Dalmazia rallenti. Che si senta ancora quel nome, Dalmazia, e non Croazia del Sud. Che a Sebenico ricollochino sul suo piedistallo il monumento a Tommaseo buttato giù dai titini. Ma per Zara non c’è niente da fare, non potremo ritrovarla più. È rimasta solo nei nostri cuori».

MARIA GIULIA MINETTI

403 – La Voce in più Dalmazia 11/06/11 Il Prologo – Viva (zivio) Marko Polo Dalmatinac
Viva (zivio) Marko Polo Dalmatinac
di Dario Saftich
Giorgio Orsini o Juraj Dalmatinac, Nicolò Fiorentino o Nikola Firentinac, Marco Manilio o Marko Manilio, Gianfranco Biondi o Ivan Franjo Bjundovic, Biagio Faggioni o Vlaho Bukovac, e… dulcis in fundo Marco Polo o Marko Polo? Le lame si incrociano ormai da decenni nel tentativo di “fissare” l’appartenenza nazionale di grandi personaggi del passato legati alla Dalmazia. Dopo fasi di letargo vi sono ritorni di fiamma delle polemiche, come in concomitanza della puntata in Cina dell’ex presidente Stjepan Mesic, che ha inaugurato il museo dedicato al grande “viaggiatore Marko Polo, nato in Croazia”. Che davvero l’autore del Milione sia il dalmata o magari il croato più celebre di tutti i tempi? Basta davvero qualche presunta ascendenza per appiccicare etichette nazionali? Non mancano chiaramente i politici e gli storici disinvolti.
Mitologie a parte resta il fatto che l’identità nazionale, come la intendiamo noi oggi, è un “prodotto” ottocentesco: fa seguito alla rivoluzione francese e prende piede con fatica e in maniera contraddittoria soprattutto nelle aree di frontiera, dove si incontrano e si intrecciano culture e lingue diverse. E questo è il caso della Dalmazia, dove nel corso dell’Ottocento si sono andati formando tre corpi nazionali distinti, il croato, l’italiano e il serbo. Ultimamente gli scontri dialettici sono incentrati in primo luogo sulla grafia da utilizzare per scrivere i nomi dei grandi del passato. Il problema sta nel fatto che prima della metà dell’Ottocento tutti i nomi venivano scritti con grafia con ascendenze veneto-italiane. Lo stesso valeva in genere per i testi in lingua croata, che non potevano rifarsi a una grafia standardizzata. La scrittura attuale, con i segni diacritici, quella che spinge a scrivere Ruder Boskovic ad esempio, è il frutto del Risorgimento nazionale croato: si è imposta nella seconda metà dell’Ottocento. In seguito da parte croata è stata utilizzata per trascrivere, in linea con la nuova tradizione, buona parte dei nomi del periodo precedente.
Dopo la metà dell’Ottocento c’è stata una sorta di biforcazione “nazionale”: in Dalmazia, ma non solo qui, i nomi scritti con la nuova grafia croata sono stati in genere appannaggio di quanti sentivano di appartenere alla nazione croata. La vecchia grafia, quella per intenderci alla Ruggero Boscovich, è rimasta spesso in auge nel circolo culturale italiano, oppure tra quanti sentivano magari più affine un’appartenenza regionale. Non vi erano naturalmente regole strette, né men che meno formalizzate in questo ambito: molto dipendeva dal luogo dove uno si trovava, dal contesto in cui era immerso. Che fare? Per i personaggi ottocenteschi e novecenteschi varrebbe la pena di rispettare le loro scelte. Tanto per fare dei nomi a caso: Biagio Faggioni è passato alla storia come Vlaho Bukovac; Roberto Ghiglianovich ha fatto le sue scelte, inutile “trascriverlo” come Robert Giljanovic. Per il passato “preottocentesco” dovrebbero valere buon senso e moderazione, valorizzando gli incontri culturali, perché scontri culturali e nazionali non ve n’erano. E se proprio si vuole esagerare… Viva Marco Polo Dalmata, alias Marko Polo Dalmatinac.

404 – Difesa Adriatica – giugno 2011 Gli Esuli e l’Unità d’Italia: l’ombra del dubbio
Gli Esuli e l’Unità d’Italia: l’ombra del dubbio

La stragrande maggioranza delle comunità giuliane e dalmate in Italia ha condiviso con generosa partecipazione le celebrazioni del 150.mo dell’Unità, nonostante che la ricorrenza non veda più congiunte alla nazione le città di origine. Un paradosso, se si vuole, una stortura della storia lenita soltanto dal coraggio della volontà di ricostruirsi in un altrove ben diverso, se non talvolta ostile, di cui molti tra quanti non hanno vissuto quell’esperienza o comunque non ne hanno memoria, faticano oggi a rendersi conto.
Come sempre, l’adesione al richiamo dell’identità e dei suoi valori è stata pressoché unanime, in grado di trascendere il dolore della perdita per compensarlo con un rinnovato patto di fedeltà ad un Paese al quale ci si è sempre sentiti congiunti nonostante le grandi traversie sofferte e le molte delusioni che ne sono derivate. Un amore talvolta “a senso unico”, diciamolo pure, ma non per questo meno ostinato e in fondo appagato in sé. In un quadro generale di disaffezione, se non di rischiosa disarticolazione della comunità nazionale, la componente degli Esuli diffusa sull’intero territorio italiano resta un’impagabile baluardo dei valori di unità e di solidarietà che sono l’eredità preziosa di sentimenti antichi e forti, quelli che hanno permesso ai profughi giuliani e dalmati di non farsi piegare e travolgere dagli eventi e dalle emergenze della storia.
Ne abbiamo avuto molte e belle conferme, a partire dalla massiccia partecipazione dei Comitati e delle Delegazioni di questa Associazione alle celebrazioni del Giorno del Ricordo e del 150.mo, nella cornice istituzionale di rapporti e collaborazione con le amministrazioni centrali e periferiche nella quale è giusto ed opportuno muoversi. Le rappresentanze dell’AN-VGD hanno portato alla ricorrenza dell’Unità il contributo speciale della loro qualità ed esperienza di italianità, storicamente sensibile alle diverse presenze attestate sul confine orientale perché identita-riamente forte: chi ha consapevolezza piena di sé non teme infatti il confronto con l’altro, sa che interloquire con l'”altro da sé” non determina una perdita ma può costituire un valore aggiunto in termini di conoscenza, di relazione e di convivenza.
Qualche voce, pochissime in verità, si è levata in senso contrario. «È una ricorrenza certamente positiva, ma non per tutti gli italiani», ci scrive un lettore da Firenze, che prosegue: «in questo frangente, a noi nativi di quelle terre si acutizza il dolore per questa esclusione. […] Stando così le cose, cosa c’è da festeggiare?». Ed un altro associato, da Latina: «sono nauseato dalle ricorrenti trionfalistiche celebrazioni dell’Unità d’Italia […]; così è unita, ma è mutilata di una sua parte preziosa [.]. Non sono questi i tempi delle rivendicazioni, ma della giustizia sì».
Sono considerazioni comprensibili, per buona parte condivisibili certamente, espresse con pacatezza benché originate da una profonda delusione che il tempo non soltanto non ha lenito, ma anzi alimentato e tenuto desta, come un malessere inestinguibile, un sordo e perenne tormento radicato in un angolo più scuro del cuore. In questi due o poco più casi la sofferenza non consente di riscattare – per quanto possibile e ammissibile – la vicenda occorsa agli italiani della Venezia Giulia in una dimensione diversa dal rimpianto: al dato storico dell’esodo, alla cognizione della perdita e dunque del lutto, non si riesce in questi casi a fornire una possibilità di redenzione, anche parziale (perché, evidentemente, quanto si è perduto è perduto per sempre). Ovvero, inconsapevolmente – a nostro avviso – si consegna definitivamente la propria storia al passato, non riuscendo ad immaginare il suo valore testimoniale per il presente e soprattutto per il futuro, e ciò per diversi motivi. Invece l’Italia ha molto bisogno dell’apporto dei “suoi” Esuli, così come questi hanno il dovere di non coltivare il dolore nel chiuso dell’anima ma di trasferirlo agli altri, alle seconde e terze generazioni dell’esodo e alla più ampia collettività nella quale si sono trovati a vivere: di trasmetterlo, quel dolore, ma di accompagnarlo anche con la memoria propositiva della complessiva civiltà che l’italianità ha modellato in un lungo tempo sulla dorsale tanto frastagliata dell’Adriatico orientale, ad un crocevia già strategico due secoli addietro e già attraversato allora da tutte le inquietudini della modernità.
Altri hanno già autorevolmente detto e scritto, anche su queste colonne, che l’italiano delle regioni giuliane può, e forse moralmente ne ha il dovere, fornire un modello di cittadinanza in un tempo storico, il nostro, che manifesta vistose fragilità ed è percorso da egoistici e miopi settarismi che rischiano di modificare sin nel profondo il costume ma anche il volto antropologico della società. L’esule del 1947 è, crediamo, con la sua scelta definitiva, l’erede di quell’identità proclamata dai volontari giuliani e dalmati nelle guerre di Indipendenza, nella difesa della Repubblica di San Marco (che ebbe il Tricolore per vessillo e il Tommaseo di Sebenico a fianco di Manin) e della Repubblica Romana, nell’impresa dei Mille (dei volontari dalmati conosciamo ed abbiamo pubblicato i nomi), nel primo conflitto mondiale. Un modello di cittadinanza, certo, formatosi nella consapevole acquisizione di una qualità identitaria unitamente all’idoneità alle relazioni con collettività diverse: era forse per questo che molti esuli, stabilitisi in piccoli o grandi città d’Italia, si sentirono come rinchiusi in un contesto per certi versi “provinciale”, cui mancava il grande respiro del confine.
È vero che il 150.mo viene celebrato avendo l’Italia perduto una parte significativa e pregnante del suo territorio e della sua cultura, questo è un dato indiscutibile. Ma se alla storia insensata si vuole dare un senso, il contributo di memoria degli Esuli deve inserirsi nel tracciato della storia italiana, ed europea, e proprio perché per decenni emarginato dalla coscienza pubblica vi dev’essere oggi ricompreso, nella sua interezza e non limitatamente ai drammi del Novecento. Questo dovrebbe essere, ed è, il contributo fattivo degli Esuli alla ricorrenza dell’Unità a partire da un ricordo di dolore e di privazioni: di ricomposizione e di rilancio, da parte di una comunità di frontiera spogliata dei suoi luoghi e dei suoi beni, di un ancora vitale modello di coesione e di coerenza del quale molto si sente il bisogno.

Patrizia C. Hansen

405 – La Voce del Popolo 09/06/11 Cultura – A Fiume non ci sono italiani ( 2ª parte e fine)
RECENSIONE DI IVA DEFRANČESKI – ZUCCON
A Fiume non ci sono italiani
A questo punto Igor Žic spiega ai suoi lettori chi è lo storico e saggista Giovanni Stelli, cominciando nuovamente da lontano, e cioè dal primo libro pubblicato dall’esponente degli esuli fiumani, “Fiume e dintorni nel 1884”, uscito a Trieste nel 1995. Lo cita per ironizzare sul fatto che il capoluogo del Quarnero, in quell’”era idilliaca”, era “la maggiore città ungherese nella quale i Croati parlavano italiano!” Cioè così vorrebbe presentarla l’autore del libro che – secondo Žic – sarebbe un plagio della guida “Fiume und seine Umgebung”, pubblicata nel 1884 dallo scrittore, linguista e poeta austriaco Heinrich von Littrow, vissuto a Fiume ed Abbazia.
A questo punto Žic cita pure il “bizzarro libro” pubblicato nel recente anno 2005 dall’ungherese Ilona Fried “E mlekek varosa Fiume” tradotto in italiano col titolo “Fiume, città della memoria 1868-1918”. Secondo Žic, la Fried meriterebbe d’essere virtualmente lapidata per aver presentato Fiume “come città ungaro-italiana, praticamente senza Croati!” E che ne facciamo di lui, che la vuole senza gli Italiani, tutta e unicamente croata?
Finalmente Igor Žic parla anche del libro di Stelli indicato nel titolo del suo scritto, “La memoria che vive”, un volume di circa 400 pagine, una storia di Fiume che parte dal maggio 1945 (con testimonianze di Leo Valiani-Weiczen), rievocando nel primo capitolo la triste sorte toccata a circa 300 fiumani subito dopo l’entrata delle truppe jugoslave in città, molti dei quali uccisi, fra cui Mario Blasich, Angelo Abram, Riccardo Gigante, Gino Sirola, Matteo Scull…
Mario Blasich, antifascista e autonomista, invalido, fu liquidato nel suo letto dagli uomini dell’Ozna. Sempre nel maggio 1945 fu ucciso il sindacalista Angelo Adam, già vittima della dittatura fascista e poi deportato a Dachau. Convinto fascista, invece era Riccardo Gigante, storico, per tre volte podestà di Fiume, poi senatore del Regno, fucilato da quelli dell’Ozna il 4 maggio a Castua con altri dieci camerati. Gino Sirola fu podestà al servizio dei tedeschi, professore di lettere italiane e traduttore dall’ungherese. Catturato per strada a Trieste, dove s’era ritirato con i nazisti, fu tradotto a Fiume e fucilato a Tersatto. Dell’industriale Scull, invece, fu avvistato il cadavere riportato a galla presso l’ultimo ponte della Fiumara il 29 maggio. Aveva un vistoso segno del colpo alla nuca… Giustamente l’anticomunista Igor Žic applaude a Stelli per le sue rievocazioni, ma non manca di aggiungere ai cognomi di Blasich e Sirola le varianti croate di Blažić e Širola e di ricordare che la madre di Gigante era la croata Kanarić dell’isola di Cherso.
Subito dopo i luttuosi fatti di maggio, Stelli si sofferma su “repressioni, opposizioni e processi” nel periodo 1945-1949. L’episodio che appare il più interessante al recensore croato “riguarda l’ultima processione italiana per le vie di Fiume, quella del Corpus Domini nel giugno 1945”. Alcuni giovani comunisti aggredirono il corteo davanti alla Chiesa dei cappuccini, provocando tafferugli, zuffe violente e disordini. E fu quell’episodio, seguito dalle “pressioni e repressioni comuniste a provocare l’esodo di 30.000 Croati filoitaliani da Fiume!”
Nel terzo capitolo del volume, dedicato agli autonomisti fiumani, Stelli spiega la ragione e le modalità della liquidazione di quel movimento antifascista fiumano i cui esponenti, già nel 1944 ebbero in casa Blasich un incontro con delegati del movimento di Resistenza per discutere sul futuro della città. Uno degli ufficiali dell’Ozna, secondo l’autore, si sarebbe presentato alla riunione esclusivamente per annotare un elenco di autonomisti da liquidare dopo la liberazione. E tutti i presenti saranno infatti brutalmente uccisi nel maggio 1945.
L’episodio fornisce a Žic l’occasione per ricordare il processo promosso a Roma nel 1947 contro ufficiali dell’Ozna, fra cui Piškulić-Žuti, terminato senza risultati concreti, e per rievocare altri “tragicomici processi” svoltisi a Fiume nell’immediato dopoguerra contro il “gruppo Visinko” (giovani autonomisti), il “gruppo cattolico” di padre Nestor, e il gruppo Maltauro. Fra gli imputati di quei processi, annota ironicamente Žic, ”incontriamo nuovamente dei caratteristici cognomi “italiani” quali Kocijančić, Sterle, Pick, Dasović, Benković, Orešković, Franck, Šuperina, Lukšić, Lenski…” La sua lingua batte sempre su quel dente cariato.
Nell’ultimo capitolo, “Ritorno alla città di Fiume – Rijeka”, il recensore vede un tentativo di Stelli, “non sempre convincente, di costruire con le schegge appuntatissime del passato e senza una goccia di sangue (?), una Fiume ancora più antica e più bella” attraverso i colloqui avuti dall’autore del libro con l’ex sindaco di Fiume, Slavko Linić, con l’ungherese Mikos Vasarhely e con Amleto Ballarini.
“Il colloquio di Giovanni Stelli con il suo mentore e padre spirituale dal drammatico nome Amleto ci ricorda Uroboros, il serpente che si morde la coda, peraltro simbolo dell’Eternità e dello effimero Stato di Fiume di D’Annunzio!”
Conclude con un pistolotto da pulpito:
“Per disgrazia dell’autore, non è mai esistita una Fiume ungherese né italiana, ma c’è sempre stata una Rijeka: bizzarra, minuscola, cinica, autosufficiente, poco convincente, pomposa, anti-intellettuale, mercantile, da tempo consumata… La nostra minuscola Shangai…”
Se veramente esistesse una tale Fiume, Igor Žic ne sarebbe il degno rappresentante.(Fine)

406 – La Voce del Popolo 30/05/11 – Un pieghevole per conoscere il comune patrimonio culturale veneziano sulle due coste adriatiche

Un pieghevole per conoscere il comune patrimonio culturale veneziano
sulle due coste adriatiche

di Kristjan Knez

Recentemente è stato edito un depliant dal titolo “Il Patrimonio Culturale Veneziano nei Comuni di Adria, Loreo, Porto Tolle, Rosolina, Buie, Cittanova, Rovigno, Umago”. Il fine è far conoscere le caratteristiche storiche e culturali tra le due riviere adriatiche e al tempo stesso evidenziare le affinità esistenti tra le terre bagnate da un mare comune.
Il pieghevole è stato promosso dal Consorzio per lo sviluppo del Polesine di Rovigo e rientra tra le iniziative del progetto “La promozione dei beni culturali di origine veneta nei Comuni dell’Istria e del Polesine per ampliare la conoscenza e la visitazione”, sostenuto dalla Regione del Veneto nell’ambito della Legge Regionale n. 15/1994 “Interventi per il recupero, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale di origine veneta nell’Istria e nella Dalmazia”. Marialuisa Coppola, Assessore alle Relazioni Internazionali, Diritti Umani e Cooperazione allo Sviluppo, ricorda che grazie all’applicazione di quella legge la Regione del Veneto si è dotata di un valido strumento sia per ristabilire un dialogo sia per rinnovare il legame tra le coste adriatiche e, cosa molto importante, per intervenire a favore del retaggio storico, architettonico e culturale che la Serenissima ha lasciato in quelli che furono per secoli i suoi possedimenti.
In quello spirito rientra, dunque, anche siffatto progetto in cui la venezianità rappresenta una sorta di ponte ideale che unisce il Veneto all’Istria, come si legge all’interno del depliant. Si propone un percorso che accompagna il viaggiatore attraverso luoghi contraddistinti da elementi comuni, come il linguaggio, la cultura, le tradizioni e la fisionomia urbana, che testimoniano la loro chiara appartenenza a un contesto unitario, che fu plasmato dalla civiltà del leone alato che si irradiò in tutta l’area adriatica. Nel pieghevole si riportano le informazioni essenziali e attraverso un corredo iconografico e l’uso della carta geografica si traccia “(…) un vero e proprio percorso turistico, basato sulle realtà storiche, culturali, paesaggistiche di Comuni veneti ed istriani che si aprono davanti agli occhi del visitatore come piccoli scrigni, svelando i tesori nascosti della venezianità”.
Quattro sono le località istriane presentate, prese a mo’ di campione, infatti non si potevano includere tutte le cittadine già possedimenti della Serenissima che tuttora conservano delle tracce inconfutabili di quella presenza. Si inizia con un luogo interno ossia con Buie, la “sentinella dell’Istria” la cui definizione non è casuale, poiché quell’osservatorio offre una veduta vastissima dalle alture circostanti alle lagune adriatiche. Tra le testimonianze più notevoli si ricorda: il Duomo dedicato a San Servolo in cui si possono notare le sculture dedicate al patrono e a San Sebastiano, del 1737, dell’artista veneziano Giovanni Marchiori nonché la ricca decorazione barocca realizzata dal maestro veneziano Gaetano Callido nel 1791. La Chiesa della Madre della Misericordia conserva al suo interno la statua omonima uscita dalla bottega lagunare di Paolo Camposa e Giovanni Malines nel XV secolo, la pala d’altare è opera di Gianbattista Pittoni (1740), mentre le otto scene della vita di Cristo è l’unico ciclo pittorico completo del veneziano Gaspare della Vecchia (1653-1735). Il borgo conserva anche alcuni esemplari di leoni marciani, vi è inoltre la torre di San Martino del XV secolo, interessante anche il cimitero omonimo con la chiesetta del XVI secolo.
Cittanova con il suo importante passato, già sede vescovile, si è sviluppata su un isolotto collegato alla terraferma nel corso del XVIII secolo. Essa conserva ancora le mura difensive del XIII secolo, la cui caratteristica è la merlatura dentata, e all’interno del perimetro urbano alcuni interessanti edifici gotici, la loggia del XVI secolo e degli imponenti palazzi. La Chiesa parrocchiale dei Santi Pelagio e Massimo eretta nell’VIII secolo sui resti di una struttura precedente fu ampliata nel XII secolo e ristrutturata in stile gotico tra gli anni 1293-1308 nonché in stile barocco tra il 1745-1775. Tra le opere di scuola veneziana conserva la “Vergine con San Massimo e San Pelagio”, un olio su tela della fine del XVI secolo. Di rilievo anche la Cisterna Pozzo Nuovo di forma circolare e formata da sei lastre di pietra ornate dallo stemma del podestà Civrano, che testimonia l’impegno della Repubblica a favore dell’approvvigionamento idrico.
Umago, situata in una baia a forma di ferro di cavallo, oggi una delle mete più frequentate dai turisti, presenta un contrasto tra l’antico e il moderno. Sul suo territorio innumerevoli sono le tracce d’epoca romana, tra cui ricordiamo le ville rustiche che ci indicano l’importanza dell’area già nell’antichità. Passò nell’orbita della Dominante nel 1269. La città racchiude non pochi elementi di quella presenza: nella chiesa di San Lorenzo si trova l’organo del veronese Gaetano Amigazzi del 1733, considerato il più antico presente in regione; in origine fu realizzato per la Chiesa di San Giorgio Maggiore di Venezia, nel 1867 fu trasportato a Daila, mentre nel 1910 a seguito del restauto eseguito da Giovanni Cella venne collocato nella sua attuale sede. Anche ad Umago non manca una cisterna pubblica, essa fu realizzata nell’ultimo quarto del XVII secolo. Tra gli edifici di culto ricordiamo la Chiesa dell’Assunzione della Beata Vergine Maria e San Pellegrino, in stile barocco, e la Chiesa votiva dedicata a San Rocco.
Rovigno, sviluppatasi su un’isola successivamente collegata alla terraferma, nel corso dell’età moderna conobbe una fase di notevole sviluppo. Sotto la Serenissima la città conobbe una costante crescita demografica, economica ed urbana. Leggiamo che la città “è una piccola Venezia: il centro storico, raccolto tra le mura erette nei secc. X-XIII per difenderla dai pirati, è caratterizzato da ripide vie lastricate che ricordano le strettissime calli veneziane. Ovunque, esse si aprono su pittoreschi campielli e sono abbellite da palazzi arricchiti da portali riccamente decorati e da preziose testimonianze scultoree e lapidee celebranti un fastoso passato”. Il patrimonio conservato è, naturalmente, degno di essere ricordato. Si può vedere il Palazzo Pretorio del 1308 con portale barocco, stemmi vari e leone alato, all’interno, nell’antica sala consiliare, esiste un affresco del 1584 (3×7 m) di un autore vicino alla cerchia del Veronese. Vi è poi Palazzo Califfi (secoli XVII-XVIII) e due palazzi veneziani del 1580 in stile rinascimentale. Tra gli edifici ecclesiastici rammentiamo il Duomo di Santa Eufemia con i suoi importanti arredi sacri, i tre altari principali e il paliotto d’altare in argento e dorato, sbalzato nel 1777 dall’orafo veneziano Angelo Scarabello; in questa sede ricordiamo anche la chiesa e il convento di San Francesco con la preziosa collezione artistica.
Altre quattro località sono state scelte per presentare l’area del delta del Po. Si tratta di Adria la cui origine risale al VI sec. a. C. quando il mare non distava molto dal villaggio su palafitte addossato alle rive di un vecchio ramo del fiume. Fu un importante scalo commerciale greco e divenne un punto di riferimento anche per gli Etruschi che nell’area erano alla ricerca di sbocchi commerciali. Rispetto alle cittadine dell’Istria che grazie alle dedizioni passarono nell’orbita di Venezia dall’ultimo quarto del XIII secolo in poi la città entrò a far parte dei suoi domini relativamente tardi, cioè solo nel 1511 al termine delle contese con gli Estensi.
Anche Loreo fu al centro delle frizioni tra Ferrara e la Serenissima e fu un caposaldo commerciale di indubbia importanza. Data la sua posizione sulla strada che allacciava Venezia a Ferrara si trovò a svolgere un ruolo strategico di prim’ordine, difatti tutto il commercio con l’Emilia e con la Lombardia passava attraverso il canale Naviglio e le dogane a Cavanella Po e Loreo per l’appunto. La presenza del leone marciano risale al XV secolo, dette un’impronta inconfondibile all’ambiente urbano e anche il dialetto parlato è molto vicino al veneziano.
Porto Tolle è inserita proprio nel cuore del Delta. La località è situata entro un territorio relativamente giovane, poiché sino a quattro secoli or sono l’area era ancora sommersa dalle acque e la sua nascita fu possibile grazie al Taglio di Porto Viro, un’opera idraulica di spessore, si tratta di un canale di sette miglia che la Repubblica realizzò tra il 1600 e il 1604 per deviare il fiume da Porto Viro nella sacca di Goro. L’intervento fu eseguito per timore che la notevole quantità di materiali trasportati dal Po interrasse la laguna.
Rosolina è completamente circondata dalle acque del Po, dell’Adige, del canale Po-Brondolo e dell’Adriatico, pertanto è definita anche la “piccola Mesopotamia d’Italia”. La zona annovera una lontana origine, attestata dagli scavi archeologici che portarono alla luce ville e altri reperti d’epoca romana. L’area geografica fu progressivamente modellata dalle famiglie veneziane che ricevettero alcune porzioni della medesima per mezzo di aste pubbliche promosse dalla Serenissima. I Sanudo, ad esempio, che possedevano buona parte della terraferma, fondarono il primo centro abitato nei pressi della Chiesa di San Antonio da Padova eretta verso la metà del XVII secolo; per siffatta ragione il paese prese il nome di Ca’ Sanudo.

407 – Il Piccolo 15/06/11 Lombardo e il Buie una promozione fatta di gioco e allegria
Lombardo e il Buie una promozione fatta di gioco e allegria

L’ex mister dell’Unione vive in Istria ed è il consulente-ds della società appena salita nella serie C croata

BUIE Il calcio a Buie torna a farsi sentire. Dopo i fasti del Digitron – sono passati 25 anni almeno – la squadra della cittadina che ha due campanili per skyline è promossa in terza Lega dopo un campionato sempre condotto nelle prime posizioni. Dopo 28 turni il Buie è secondo dietro al Novi Vinodolski. Non si sa ancora se la società biancoverde potrà partecipare al campionato conquistato grazie a 63 gol fatti e 24 subiti pur senza attaccanti di peso. L’allenatore Miha Rojna, un giovane emergente, può dirsi soddisfatto della sua conduzione. Conduzione che si è avvalsa dei consigli, dell’esperienza di Marino Lombardo che di calcio a ogni livello ha incamerato il bello e il brutto. Partito dal S.Anna, passato alla Tevere Roma e poi al Torino di Giagnoni e Radice (uno scudetto tricolore), ancora serie A al Cesena, alla Pistoiese, al Pescara dove è rimasto nelle cronache per aver visto i poliziotti in attesa di arrestare i giocatori laziali implicati nel primo calcioscandalo. A D’amico che protestava, Lombardo non resistette dal dire: «State attenti che vi vengono per arrestare». Forse era una battuta e invece era vero, erano 30 anni fa e sembra oggi (visto quel che succede nel calcio italiano). Come allenatore Lombardo è passato dalle giovanili di Tristina e Udinese, poi la Pordenone, Udinese assieme a Bora Milutinovic e infine alla Triestina, riportata ben presto in serie B dopo la retrocessione. Ma il rapporto col presidente De Riù era diventato difficile, uno che parla chiaro non si trova con chi è aduso al dialogo indiretto (anche senza conoscere Leonardo Sciascia). Così è arrivato l’esonero, non per colpa di risultati scadenti ma solo per far posto ad altre situazioni.
Situazioni che solo due anni dopo sono finite nel fallimento dell’Alabarda.
Ma intanto Lombardo era andato a Cherso, più per star dietro ai saraghi e ai sardoni che per impegnarsi nel calcio. Ma anche nel Quarnero il tecnico ha avuto modo di mostrare l’occhio perspicace e la bravura organizzativa:
dietro a 3 o 4 trentenni di buona tecnica, ha inserito ragazzotti che hanno ottenuto due promozioni in pochi anni. E adesso a Buie. Rojna è entusiasta del rapporto con Lombardo, che per ruolo si può identificare non solo come tecnico, d.s., ma come punto di riferimento per tutti: «E’ come mio fratello più grande, sa farmi ragionare durante le fasi di gioco, mi ha difeso in momenti difficili. Senza di lui questo risultato non sarebbe arrivato». Sul futuro del club bisogna aspettare le decisioni del presidente Valter Dragolin, che deve discutere con le istituzioni e eventuali sponsor. Perchè più si va in alto e più le spese si fanno sostenute. Il Pola è appena retrocesso in seconda Lega, Rovigno e Parenzo sono in terza e ci potrebbe stare anche il Buie, se i dirigenti trovaranno i soldi sufficienti per un campionato competitivo. Va dato atto che i giocatori in maglia verde hanno avuto per tempo i soldi dei rimborsi spese, l’organizzazione del lavoro e le trasferte non hanno destato rammarichi, spesso il gruppo ha avuto modo di trovarsi – gran cosa – per cenare assieme e cementare il rapporto collettivo. Anche senza grandi attaccanti la squadra ha centrato l’obiettivo, mandando in gol 14 giocatori. Una cooperativa delle realizzazioni, grazie a un assetto ben studiato e al sacrificio di chi non ha risparmiato corsa e giocate a favore del compagno meglio smarcato.
Mentalità da grande squadra, tanta umiltà e una buona tecnica. Ma il fatto più importante è che la maggior parte dei giocatori è fatta da ventenni o giù di là. Certo, qualche marpione ci vuole, purchè non tarpi le ali. Questo ci ricorda il Lombardo capace di schierare in C con la maglia alabardata una nidiata di giovanissimi senza pedrigree ma con voglia di farsi largo. E quando la partita finisce, gli spettatori escono mentre l’altoparlante squilla «La maja verde…la maja verde…», Rojna e Lombardo se ne stanno in panchina a rivedere quel che di buono è stato fatto e ciò che si potrà migliorare. Poi se ne vanno a salutare i giocatori, magari si farà un brindisi, qualche risata.

408 – Il Piccolo 14/06/11 Ma Cadorna non merita la via che Trieste gli ha dedicato, gli storici ritengono che la disfatta di Caporetto sia una diretta conseguenza della sua folle tattica militare
Gli storici ritengono che la disfatta di Caporetto sia una diretta conseguenza della sua folle tattica militare, che lasciò sul Carso un alto numero di morti

A dieci anni era già al Collegio Militare

FIGLIO DEL CONTE RAFFAELE

Figlio del generale conte Raffaele Cadorna (veterano della battaglia di San Martino e in seguito comandante della spedizione che nel 1870 portò all’annessione di Roma al Regno d’Italia), Luigi Cadorna nel 1860, all’età di dieci anni, fu avviato dal padre al Collegio Militare di Milano. Cinque anni dopo entrò all’Accademia Militare di Torino, venendo nominato sottotenente nell’arma d’artiglieria nel 1868. La mattina del primo luglio del 1914 moriva il generale Alberto Pollio, stroncato da un infarto. Il 27 luglio successivo Luigi Cadorna prendeva possesso degli uffici del capo di Stato Maggiore in un periodo cruciale per la storia d’Europa.

di FERDINANDO CAMON

La città di Udine ha deciso in questi giorni (“Messaggero Veneto” del 4 giugno) di togliere il nome del generale Luigi Cadorna da una sua piazza: la decisione è definitiva, già approvata in giunta, ora aspetta soltanto i tempi tecnici dell’attuazione. Diffusa sui giornali italiani, la notizia ha raccolto un’ondata di e-mail, tutte di consenso: non c’è un solo lettore che non sia d’accordo nel ritenere che Cadorna non merita di essere presente nella toponomastica di qualche città.
E Trieste? A questo punto, si fa impellente la domanda: perché il nome di Cadorna resta presente nella toponomastica di Trieste? Anche Trieste è stata segnata a sangue dagli ordini e delle direttive che Cadorna impartiva finché fu al comando supremo del nostro esercito, nella prima guerra mondiale. E lo fu fino alla disfatta di Caporetto, che gli studiosi ritengono una conseguenza del fiaccamento e della sfiducia che la sua strategia imprimeva nei soldati. Sul Carso si combatterono numerose battaglie con la stessa tattica adottata sull’Altipiano: attacchi frontali, i nostri soldati a scagliarsi contro le postazioni nemiche a ranghi compatti, offrendo squadre plotoni e compagnie al tiro delle mitragliatrici, la nuova terribile arma che in questa guerra ebbe il suo battesimo e di questa guerra divenne “la regina”.
Gli attacchi nelle battaglie del Carso, esattamente come in quelle sull’Altipiano, si concludevano con un numero dolorosamente alto di morti, e nessuna conquista territoriale. L’appunto tremendo Cadorna rimase al comando supremo un tempo sorprendentemente lungo, se si guarda ai risultati delle sue operazioni. Ma il fatto è che lui non teneva in alcun conto il prezzo umano che le sue direttive costavano: c’è un appunto tremendo di un ufficiale ammesso alla riunione del generalissimo insieme con i più alti consiglieri dopo una sanguinosa sconfitta, che descrive il comandante supremo in preda a una “visibile lietezza”.
So che gli storici, interpellati su questo punto, lo scarso o nessun valore attribuito dai nostri comandanti alla vita dei soldati, rispondono che quella era la scuola militare dell’Europa di quel periodo, non solo dell’Italia, e che nell’esercito austriaco o tedesco le cose non andavano molto meglio. Emilio Lussu, che combatté sull’Altipiano e poi sulla Bainsizza, racconta di una battaglia in cui i nemici avanzavano al passo verso di noi a ranghi compatti, fucile a tracolla, urlando “Urrah!” e riempiendo l’aria dell’odore di cognac e la terra di cadaveri. I soldati, i nostri come i nemici, venivano ubriacati prima dell’attacco. Le zaffate di alcol provenienti dalle trincee nemiche erano il segnale che l’attacco era prossimo.
Ma la coscienza che quella era una tattica suicida era già diffusa tra gli alti comandi dei nostri alleati: Cadorna lo sapeva, ma non ne teneva conto. Morti inutili A più riprese i nostri alleati s’eran dichiarati pronti a inviarci rinforzi, a patto che prima sostituissimo il comandante supremo: non erano disposti a vedere morire i loro uomini come noi accettavamo di veder morire i nostri. Dopo Caporetto, la richiesta di mandar via Cadorna si fece più pressante da parte di tutti, e diventò irrinunciabile. Gli ordini di Cadorna, sull’Altipiano e sul Carso, equivalevano a condanne a morte. Non erano operazioni militari, erano esecuzioni. Non solo i grandi ordini di battaglia, rivolti ai reparti, ma anche i piccoli ordini di controllo del terreno, l’invio di pattuglie a tagliare i reticolati nemici: sono troppe le pattuglie partite, di cui non è tornato nessuno.
Il generalissimo impartiva le direttive strategiche, che poi venivano tradotte in ordini per i reggimenti, le compagnie e via via fino alle squadre e alle pattuglie: prima che il grande reparto attaccasse, bisognava che le piccole pattuglie aprissero i varchi tra i reticolati. Per fare questo, i soldati incaricati, spesso perché i superiori li disamavano e volevano punirli o non di rado toglierli di mezzo, avanzavano strisciando fin sotto i fili e li tagliavano con le pinze, poi sempre strisciando tornavano indietro. Il nemico era allertato per stroncare queste azioni non alla fine, non a metà, ma all’inizio: le pattuglie venivano falciate appena uscivano dalla trincea. Quando il primo soldato colpito cadeva indietro, il secondo soldato aveva l’ordine di scrollarsi di dosso il cadavere e offrirsi al sua volta come bersaglio. Orrende carneficine Ci sono state situazioni in cui il nemico stesso provava orrore per queste facili e orrende carneficine: Francesco Rosi, filmando un nostro attacco, mostra gli ufficiali austriaci dritti in piedi a seguire la scena col binocolo, che gridano: «Basta, valorosi soldati italiani, non fatevi uccidere così!».
Cadorna spediva i nostri soldati al massacro e il nemico, stanco di massacrarli, provava pietà. E Trieste si ostina a mantenere a questo comandante l’onore di dedicargli una strada? Cadorna era disamato dai soldati, e sotto di lui eran disamati o odiati gli ufficiali che adottavano la sua condotta. I nostri soldati consideravano i nostri ufficiali superiori più spietati dei nemici. E si difendevano da quelli come da questi. Non c’è nessuna possibilità di proporre o mantenere il nome del generale Cadorna a qualche via o piazza, se si son letti i diari, le cronache delle battaglie che lui dirigeva, le ricostruzioni storiche delle sue operazioni.
Le intitolazioni a Cadorna sono possibili solo se chi le propone o le conserva “non sa” o “approva”. Ma è impossibile che ci sia qualcuno, anche uno solo, tra gli amministratori di Trieste, che non conosca o approvi questa storia, che è il recente, grandioso-funereo, passato di Trieste. La dedica ai grandi Una città dedica le sue vie ai grandi che le danno onore e a cui vuol dare onore, ai grandi di cui si vanta, la cui vita, conclusasi ieri, illumina la vita di coloro che vivono oggi. Chi dà il nome a una strada o a una piazza ammonisce chi abita in quella strada o quella piazza a vivere come lui, si presenta come modello di vita, di professione, di arte, di scienza: in questo caso, per un generale, di tattica militare. Ma se si usa il nome di Cadorna per battezzare una strada, non c’è augurio più lugubre per l’esercito italiano. Di Caporetto ce n’è stata una, basta e avanza. Aver dato il nome di Cadorna a una via di Trieste è stato, ieri, un errore. Mantenerlo oggi diventa, ormai, una colpa.

La Mailing List Histria ha il piacere di inviarVi periodicamente una minirassegna stampa sugli avvenimenti più importanti che interessano gli Esuli e le C.I. dell’ Istria, Fiume e Dalmazia, nonché le relazioni dell’Italia con la Croazia e Slovenia.
Si ringrazia per la collaborazione l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia di Gorizia e l’Università Popolare di Trieste
Vi invitiamo conoscere maggiori dettagli della storia, cultura, tradizioni e immagini delle nostre terre, visitando i siti :
http://www.mlhistria.it
http://www.adriaticounisce.it/
http://www.arupinum.it